martedì 18 novembre 2014

PETRELLI DELL'UCPI SU IL GARANTISTA : PERCHE' GRATTERI HA TORTO SU PRESCRIZIONE E APPELLO



Francesco Petrelli è il nuovo segretario dell'Unione Camere Penali, associazione lodevole e meritoria che sta passando però un brutto momento per una serie di brutte polemiche per questioni di tesseramenti sospetti. Peccato, perché la passione, l'impegno e il valore di molti singoli non dovrebbero essere offuscate da queste cose. Passerà (spero).
Tornando a Petrelli, molto bello il suo intervento su Il Garantista in cui critica duramente le proposte di abolizione dell'appello partite da Gratteri ( il ministro della giustizia mancato grazie al veto quirinalizio) e raccolta da pessimi colleghi del PM calabrese. 
Sempre opportuno il ricordo dei numeri, che la casta conservatrice dei magistrati tende a ignorare, su prescrizione (nonostante la legge Cirielli, tanto vituperata, si sono dimezzate dal 2005) e riforme in appello (oltre il 40%). Non solo, sempre in merito alle prescrizioni, delle oltre 100.000 maturate nel 2012, oltre 2/3 si sono realizzate PRIMA di arrivare al processo !!, colpa di indagini interminabili e inconcludenti.
Petrelli sottolinea anche un altro aspetto. Ve l'immaginate la velocità dei processi senza nemmeno più lo stimolo della prescrizione ? Altro che "ragionevole durata" ! 
Grottesca la rivendicazione fatta da qualche brillante testa della pubblica accusa della  maggiore attendibilità della sentenza di primo grado, vicina al "clima dei fatti". Ma sarà vero esattamente l'opposto !!
Bellissima la citazione finale di Montesquieu.



Il Garantista

Ma come fa Gratteri a proporre l’abolizione dell’appello?

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Coloro che intendono metter mano alla riforma della giustizia dovrebbero ricordare che una pratica efficace del problem solving presuppone approfondita analisi e attenta valutazione. Affrontare le riforme del processo penale con strumenti ideologici o, ancor peggio, trarre dall’occasionale insorgere di questo o quel problema per operare controriforme illiberali, autoritarie ed inquisitorie, significa inoculare nell’intero sistema pericolosi elementi distorsivi e non risolvere le criticità ma spostarle da un luogo all’altro del processo.
Prima, dunque, di prospettare come indispensabile una riforma della prescrizione che preveda la interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, occorrerebbe rispondere ad una serie di domande. Andando con ordine varrebbe la pena di ricordare che a seguito della introduzione delle legge Cirielli il numero delle prescrizioni, che nel 2005 ammontava ad oltre 200mila, si è sostanzialmente dimezzato. Ed occorre soprattutto rilevare come non sia affatto il dibattimento il luogo ove matura il maggior numero delle prescrizioni. Dati alla mano, risulta che nel 2012 le prescrizioni sono state complessivamente 113.057, ma di queste ben oltre 70mila sono intervenute nel corso delle indagini preliminari: 67.252 sono state oggetto di decreto di archiviazione, 4.725 sono state dichiarate con sentenza da parte dell’ufficio Gip/Gup. Ciò significa che immaginare come rimedio una interruzione dei termini dopo la sentenza di primo grado sarebbe metaforicamente come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti, dopo cioè che la maggior parte delle prescrizioni sono già maturate.
Al fine di procedere con la necessaria ragionevolezza occorrerà anche tenere conto del fatto che un adeguato e perdurante termine prescrizionale, funge nel nostro sistema da stimolo assai efficace alla celebrazione dei processi i quali, se sottratti a tale minaccia, resterebbero abbandonati negli armadi per dei lustri. Chi potrebbe auspicare un simile sistema che, in violazione dello stesso principio di ragionevole durata, e dispiacendo tanto alle vittime del reato quanto all’imputato, rinviasse tutti gli appelli in attesa di tempi migliori? L’interruzione dei termini avrebbe infatti, specie nei tribunali di maggiori dimensioni, e cioè quelli a maggior rischio di prescrizione, come risultato quello di creare un immenso limbo di processi all’interno del quale verrebbe a naufragare miseramente ogni ragionevole istanza di giustizia. Che senso ha, difatti, essere giudicati dopo troppi anni dal fatto, essere condannati a scontare pene inflitte per reati commessi molti anni prima, o anche essere riconosciuti come destinatari di un risarcimento con simili irragionevoli ritardi? E non si dimentichi ancora come una quota superiore al 40 % delle decisioni di primo grado viene riformata in appello, per cui una interruzione dei termini all’esito del primo grado determinerebbe come effetto un notevole spostamento nel tempo di tali riforme, con la conseguenza di altrettante pendenze processuali ingiustamente e indeterminatamente dilatate nel tempo.
E tuttavia, ad alcuni, simili scenari sembrano suggerire ben altre soluzioni. Più che dal razionale e pedante scrutinio delle cause, la soluzione dei problemi del processo può sortire in maniera più naturale seguendo la sempre incipiente onda emotiva del quotidiano, lo smarrimento di una opinione pubblica disinformata dinanzi a casi controversi. E allora perché perdere tempo in simili alchimie da legulei quando la soluzione, rapida ed efficace, è sotto gli occhi di tutti? Che si elimini in radice la pietra dello scandalo, questo appello che allunga i processi, pericoloso e ingombrante. Dopo Roberti e Gratteri, ora anche il Procuratore di Palermo, cavalcando il pubblico disagio, sembra implicitamente invocare soluzioni radicali fondate su riflessioni piuttosto originali: «Mi chiedo se sia giusto che la sentenza di appello prevalga su quella di primo grado», visto che nella maggior parte dei casi il giudizio di appello si basa «soltanto sulle carte» incapaci di «ricostruire il clima che aveva colto invece il giudice di primo grado».
«Siamo sicuri – si chiede il Procuratore – che, benché il sistema stabilisca questo, sia più giusta la sentenza di appello? Anche questo è un ulteriore macigno sui tempi del processo». La questione andrebbe approfondita altrimenti, ma ci pare necessario segnalare con una qualche urgenza almeno tre punti critici del ragionamento. Siamo davvero tutti sicuri che il giudizio debba “cogliere il clima” piuttosto che soppesare prove e responsabilità individuali? Non si rischia di far così processi “a furor di popolo”, piuttosto che “nel nome del popolo”? Il che non è proprio la stessa cosa. E poi, come mai simili riflessioni prendono forma di fronte a casi di assoluzione e non di fronte ad altrettanto clamorosi ribaltamenti in appello di assoluzioni in condanne sulla base delle medesime carte?
E infine, siamo sicuri che questa voglia di smantellamento del processo sia un segno di modernità, un modo saggio di costruirci il futuro e non il sintomo evidente della perdita di capacità da parte di un’intera classe intellettuale del paese di immaginare, di leggere e di gestire la complessità del presente? La complessità della giustizia era un tempo un dato sedimentato e condiviso che non smarriva l’animo dei pensanti e faceva cogliere il valore complessivo e positivo di quella macchina processuale che a prima vista, solo ad uno sguardo ingenuo, può apparire irragionevole.
Scrive in proposito Charles-Louis de Montesquieu nel suo “spirito delle leggi”: «Se esaminate le formalità della Giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della Giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà».

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