sabato 10 ottobre 2015

E SE I ROMANI AVESSERO I SINDACI CHE SI MERITANO ?

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Una cosa che non ho in comune con i miei concittadini romani è l'amore a prescindere per Roma. 
La reputo una città bellissima, per storia, architettura, piena di angoli suggestivi accanto ai maestosi monumenti. 
Se qualcuno, italico, si vantasse di aver visto tutto il mondo senza aver mai visitato Roma, gli direi che c'è qualcosa in lui che non va...
Reso omaggio quindi alla bellezza unica - come uniche sono Parigi, Londra, Venezia, Firenze, per citare altre città imperdibili - della capitale, sul resto che dire ?  Traffico, sporcizia, assenza di senso civico, con una anarchia che va dall'inosservanza delle piccole regole per arrivare su su fino alla corruzione diffusa, favorita dalla aziende municipali - ATAC, AMA...- che hanno tanti dipendenti quanto una grande industria nazionale, con clientelismi sfacciati. 
Nelle altre città non è diverso, direte, probabilmente con qualche ragione, ma Roma ha l'aggravante di essere la Capitale e l'unica vera metropoli (Milano e Napoli sono le altre due  sole città a superare il milione di abitanti, ma Roma ne ha tre !!), con i problemi connessi ma anche con le risorse (male utilizzate quando non proprio sottratte) favorite da essere il centro degli uffici nazionali, nonché dai finanziamenti straordinari legati al suo ruolo. 
A mio avviso, siamo noi romani che ci siamo parecchio involuti, conservando difetti atavici e smarrendo pregi di bonomia, arguzia, velocità di pensiero che forse ci erano propri. Ci siamo incattiviti, e questo ha reso insopportabile una certa presunzione che non ho mai compreso bene su cosa si basasse, visto che la grandezza di Roma nella storia si è chiusa definitivamente nel 476 dopo Cristo, più di 1500 anni fa...
Ernesto Galli della Loggia dedica un editoriale che tutti noi romani dobbiamo leggere con attenzione e umiltà. 
E' un'accusa meditata - da applausi quella al pd romano -  che non si limita, come fa comodo a troppi, alle ultime due amministrazioni, in effetto pessime, ma risale indietro nei lustri, fino agli anni '70, e dice molto sulle colpe dei romani cittadini, troppo pronti a prendersela sempre con gli altri, e mai con se stessi.



Il Corriere della Sera - Digital Edition
 
La scomoda verità su Roma
di Ernesto Galli della Loggia

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Gli ultimi due sindaci di Roma sono stati forse i peggiori che la città abbia avuto. Per motivi differenti: il primo, Alemanno, per la sua contiguità con gli ambienti più torbidi del sottobosco squadristico-malavitoso dell’antico neofascismo cittadino nonché per la gestione spudoratamente clientelare delle aziende comunali affidata a personaggi dello stesso ambiente; il secondo, Marino, per la stolida insensibilità autoreferenziale dell’uomo, per la sua totale incapacità di pensare e fare le cose più necessarie.
Ma ora che questa lunga pagina sembra sul punto di chiudersi è giunto il momento di aprire il discorso più importante: quello sulla città, su che cosa è oggi Roma. Perché è da qui che il male comincia. È da ciò che la città è diventata negli ultimi due, tre decenni, che nasce il suo sfascio amministrativo ma prima ancora il degrado civile che lo ha generato.
Una città disarticolata spazialmente da un’informe crescita speculativa. Senza più un’élite riconosciuta e senza la sua plebe antica: perciò ormai senza più tradizioni e senz’anima. Dagli anni Settanta priva del fermento di vita e di idee assicuratole un tempo da quel numeroso ceto di artisti, di intellettuali, di giornalisti colti, di uomini e donne del cinema e del teatro che s’incontravano nelle sue trattorie, nelle gallerie d’arte, nelle librerie (luoghi ormai letteralmente inesistenti). Una città dove perfino i salotti delle signore della prima Repubblica, che ambivano a un certo tono, hanno chiuso i battenti.

Al loro posto una galassia di centri d’influenza e di coalizioni d’interessi: i quattro o cinque circoli del generone, le associazioni dei commercianti, le cooperative dei taxi, i costruttori, i gestori degli alberghi e dei ristoranti, i padroni dei bus turistici. Con il loro corredo di professionisti di fiducia, con i loro «presidenti»: gli uni e gli altri con i loro molti «amici» e «clienti», e quindi sempre con folti pacchetti di voti da distribuire alla politica di cui vivono a ridosso. Sono loro che ormai esprimono lo spirito maneggione, lo stile volgarmente confidenziale e un po’ sbracato della città, della quale sono ormai i veri padroni sociali. 

Sono loro che al pari di tante altre caste cittadine italiane da Milano a Firenze hanno deciso — svanita ogni illusione di sviluppo urbano diverso da una terziarizzazione selvaggia — che oltre la politica e i suoi favori, l’unico altro modo per fare soldi è sfruttare la città storica come una mucca da mungere. E dunque avanti, a Roma, con l’obiettivo di accrescere l’orda del turismo devastatore tra il Pantheon, il Colosseo e Trinità dei Monti.
Gare di appalti, contratti di consulenze, pratiche per licenze di ogni tipo, legano questa oligarchia all’amministrazione comunale: la più elefantiaca e la più fannullona d’Italia, blindata da una marea di sigle sindacali più o meno fasulle, abituate spudoratamente a fare il bello e il cattivo tempo ricattando sindaci e cittadini. Un’amministrazione comunale il cui vero simbolo è la «polizia di Roma Capitale», come si chiama ora, secondo la ridicola dizione voluta dal sindaco Alemanno. Il modo stesso d’indossare la divisa, il taglio dei capelli, l’approccio verbale malmostoso e sempre privo di garbo di vigili e vigilesse romane sono la raffigurazione esatta di una città insieme aggressiva e svogliata, sempre inappropriata e fuori dalle regole.
Anche la politica — è questa la vera, decisiva, novità dell’ultimo decennio — fa ormai parte a pieno titolo di questo degrado civile di Roma. Forse anzi, come farebbero pensare certe inchieste giudiziarie e non, ne è divenuto un oscuro motore nascosto. Assai più delle periferie è da tempo il centro della città la roccaforte del Pd, divenuto ormai il partito che piace alla gente che piace; e che conta. Perduta l’anima torinese-napoletana della sua lontana origine comunista, il Pd, come ha scritto esattamente Marco Damilano sull’Espresso, in forza dell’incontro Veltroni-Rutelli è nato romano, ed è stato al governo della città per un tempo lunghissimo. Appare quindi quasi una nemesi, che proprio Roma assista alla conferma più evidente della perdita da parte sua di ogni «diversità» d’antichissima memoria, con Marino che cade ignominiosamente per uno di quegli scandali a cui in un epoca remota sembravano destinati solo i «forchettoni» dc o, più vicino a noi, i bru-bru della variegata corte berlusconiana

La vicenda dell’ormai ex sindaco, insomma, non si libra isolata nel nulla: va letta come apologo della parabola di un intero partito, spesso — qui come in tanti altri luoghi — perdutosi nell’ingaglioffimento di quadri di nessuna educazione politica e di ancor minore tenuta morale, mossi solo dall’arrivismo e dalla sete di potere.
Ma attenzione a non fare del Pd e della politica un capro espiatorio. Proprio la vastità delle disfunzioni, delle inadeguatezze, dei mali di ogni tipo venute alla luce così clamorosamente negli ultimi due anni mostrano, lo ripeto, che a Roma c’è una realtà sociale diffusa che è guasta, che troppi gruppi sociali, troppi organismi, troppi ambienti, sono intimamente corrotti. In troppi sono abituati a non avere alcun senso civico, a non rispettare nessuna regola, a evadere tutto ciò che è possibile evadere, ad abusare di ogni possibilità di abuso. In un tale panorama sconsolante la politica trova un suo limite oggettivo: non si possono raddrizzare le gambe ai cani. Se non si vuole essere faziosi, il caso Marino mostra anche questo. Precisamente perciò potrebbe essere proprio la politica a cercare di riguadagnare l’onore perduto dando essa, una volta tanto, una lezione alla cosiddetta società civile. Facendo, per esempio, una cosa di cui in Italia si sta ormai perdendo quasi la nozione: si chiama esame di coscienza



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