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mercoledì 2 novembre 2011

L'ASSE BERLINO - PARIGI

Ho citato spesso in questi giorni, scrivendo della crisi Europea, il bell' articolo di Ernesto Galli della Loggia e, come faccio spesso, mi appresto a pubblicarlo per intero in modo che chi ha la pazienza di leggermi possa poi confrontarsi, se vuole, direttamente con la fonte dei miei spunti.
Al solito, mie le evidenziazioni sottolineate.
Buona lettura
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

PERICOLI DELL’ASSE BERLINO-PARIGI
I vasi di coccio dell'Unione
In maniera sempre più evidente la crisi economico-finanziaria, proprio perché è innanzi tutto crisi nostra, italiana e -ha fatto bene Mario Monti a ricordarlo domenica scorsa sul Corriere-ci ha messo negli ultimi mesi in un rapporto nuovo e per certi versi drammatico con l’Unione europea. Facendocene apprezzare l’aiuto vitale e necessario, ma anche facendoci toccare con mano il modo sicuramente problematico in cui la costruzione europea si sta sempre più definendo.
L’Europa di oggi non è certo quella del 1958, di cui fummo tra i fondatori, pensata e nata su un piede di assoluta parità tra i suoi membri. Gli sviluppi successivi, infatti, i vari allargamenti succedutisi (in modo particolare quello sciaguratissimo da 15 a 27 Paesi), nonché la crisi economica recente, hanno fatto emergere, di fatto, al suo interno un direttorio franco-tedesco. Direttorio che, benché possa essere considerato allo stato delle cose inevitabile, pone certamente in modo nuovo la questione della cessione di sovranità insita nel trattato dell’Unione.
La domanda cruciale che oggi dobbiamo porci (e forse non solo noi) è: quando obbediamo alle sempre più numerose e vincolanti direttive della Ue, a chi stiamo cedendo sovranità? All’Europa, o piuttosto alla Francia e alla Germania? Domanda tanto più fondata in quanto non c’è nessuna persona di buon senso che possa dubitare del fatto che i governi di Parigi e di Berlino, anche quando trattano affari europei e decidono in quella sede, in realtà si preoccupino innanzi tutto dei propri interessi politici e nazionali. Ma noi? Siamo davvero sicuri, noi, che invece il nostro interesse nazionale e l’interesse politico della maggioranza elettorale che si esprime nel nostro governo, siano sempre e comunque coincidenti con quelli «europei» presi nel modo che ho detto?
A questo proposito a me personalmente appare esemplare quanto ha più volte sentenziato la Corte costituzionale tedesca. E cioè che a norma della costituzione federale, in determinate materie il parlamento della Germania mantiene piena e assoluta sovranità, a dispetto di qualunque decisione possa prendere un qualunque organismo europeo. Qualcosa del genere, mi pare, dovrebbe valere anche per noi, essendo una conseguenza evidente del principio democratico secondo il quale per una moderna comunità politica certe decisioni cruciali sono legittime solo se prese da organi elettivi. Mentre, come è noto, nessun organo realmente decisionale dell’Unione europea lo è. Il che, allora, pur volendo prescindere da ogni questione di forma (ammesso che in questo caso si tratti solo di forma), dovrebbe però obbligare comunque a porsi una domanda non da poco: è accettabile che il nostro interesse nazionale sia di fatto condizionato o addirittura deciso in modo vincolante da governi stranieri?
La verità è che l’Unione europea si trova oggi stretta in una tenaglia. Da un lato le decisioni sempre più importanti a cui soprattutto l’esistenza dell’euro la spingono non le consentono più di seguire la regola, seguita fino ad oggi, per la quale ogni Paese, anche il più piccolo, può esercitare un insindacabile diritto di veto.
Dall’altro lato, però, non le è neppure possibile (per l’inesistenza di un «popolo europeo» e dunque di un medium linguistico comune, e pertanto per l’impossibilità di una vera esistenza politica comune) di adottare la sola procedura alternativa effettivamente democratica: affidare le decisioni medesime a un parlamento eletto da tutti i cittadini dell’Unione. Che vorrebbe dire, poi, il primo passo verso una vera unione federale.
La via d’uscita escogitata per sfuggire a questa tenaglia è una falsa via d’uscita. Mi riferisco al progetto di «pesare» ogni singolo Stato sulla base del numero dei suoi abitanti e di adottare quindi solo le decisioni prese da un numero di Stati la cui popolazione sia almeno pari al 65 per cento dell’intera popolazione dell’Ue.
È una falsa via d’uscita perché in realtà lascia tutto ancora nelle mani dei governi, cioè degli Stati, e dunque affida tutto ai rapporti di forza tra di essi. Che cosa mai impedirebbe, per esempio, all’attuale direttorio franco-tedesco, ricorrendo ai più diversi mezzi di pressione, di convincere del proprio punto di vista un numero di Paesi sufficiente a raggiungere la quota di popolazione prescritta? Non è forse lo stesso direttorio in grado già oggi di costruire l’unanimità intorno ai propri voleri?
C’è poco da fare. Fino a che la parola non passerà ai cittadini-elettori (chissà quando), la volontà dell’Europa sarà sempre la volontà — sia pure la migliore immaginabile: ma il punto non è questo— solo di alcuni Stati, cioè di alcuni governi, cioè in definitiva di alcuni interessi politico-nazionali. Tra questi oggi non c’è di certo l’Italia. Ma siccome il problema non è solo nostro, forse proprio l’Italia potrebbe almeno farsi iniziatrice di un grande dibattito pubblico nella cerchia dell’opinione più qualificata del continente, allo scopo di porre all’attenzione di tutti una questione che alla fine riguarda il futuro di tutti. Senza alcuna iattanza, naturalmente. Ma anche, piacerebbe sperare, senza nessuna timidezza.

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