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mercoledì 12 dicembre 2012

IL DECLINO FRUTTO DI UN PAESE CHE NON VUOLE CAMBIARE



Lucrezia Reichlin è considerata  " una delle più brillanti economiste del mondo». Laureata a Modena nel 1980, PhD a New York sei anni dopo, già consulente della Fed di Alan Greenspan e poi fra il 2005 e il 2008 direttore del dipartimento ricerca della Banca centrale europea. Oggi insegna alla London Business School. 
Da giovane era chiamata la Principessa Comunista, per i suoi natali : figlia di Alfredo Reichlin , esponente di punta del PCI, e Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto. 
Siccome i figli certi scherzi li fanno ai padri,  sia lei che il fratello sono economisti di formazione di sinistra, ma hanno completato gli studi in America, e questo forse li ha portati a strizzare l' occhio sempre più al liberismo e alle nuove teorie monetarie.
Nel riflettere sull'anno Montiano, la Reichlin osserva come i problemi in Italia si siano evidentemente sclerotizzati e che dal 1990 l'economia ha smesso di crescere, viaggiando alla media di un misero 1% l'anno, con quel piccolo punto peraltro dovuto più al debito che non alla vera crescita, e consentendo alla nave di galleggiare ma grazie ai debiti più che alla produzione. L'analisi è molto amara, e, a mio avviso, non considera (probabilmente perché l'analista aveva come centro di osservazione i dati della crescita del PIL , tralasciando volontariamente altro ) come negli anni 50 e 60 lo sviluppo fosse stato ben maggiore del 2%, consentendo l'industrializzazione di un paese agricolo, per poi iniziare a flettere con gli anni 70 e la morsa impiego pubblico - sindacati  che la crescita di quel debito innescarono, senza che al vizio venisse posto mai vera fine.
Totalmente condivisibile viceversa la riflessione della Reichlin quando punta il dito sulla assoluta resistenza degli italiani al cambiamento, in un atteggiamento chiuso, conservatore, che è assolutamente trasversale e che trova anzi nella sinistra radicale i suoi scogli più saldi e aguzzi. 
Da leggere


CV_Lucrezia_Reichlin

Per fare un bilancio del governo Monti e per capire cosa possiamo aspettarci da chi ci governerà in futuro ci sono delle verità che è pericoloso nascondere.
La crisi economica italiana non è frutto della fragilità dell’euro o dello choc globale che ha portato in recessione tutti i Paesi del mondo nel 2008. Sicuramente queste scosse esterne sono state un fattore aggravante, ma la crisi del nostro Paese ha radici lontane e tutte italiane.
Questo rende il compito del risanamento molto difficile e spiega perché sia così difficile innestare un processo di riforma senza che gli effetti siano profondamente divisivi. All’inizio degli anni Settanta l’Italia raggiunge il livello di Prodotto interno lordo (Pil) pro capite di Paesi come Francia e Germania. Da quel momento fino all’inizio degli anni Novanta, cresce come loro, a un tasso, sempre in termini di Pil pro capite, del 2%. Ma è proprio da quegli anni che comincia il nostro declino. L’Italia si distanzia dai Paesi del cuore dell’Europa avanzata e cresce, fino alla crisi recente, di circa l’1%: più di un punto in meno. Il debito pubblico, dopo un periodo di aggiustamento al ribasso guidato dai governi tecnici dei primi anni Novanta, riprende a crescere in relazione al Pil. Quei quindici anni di stagnazione non corrispondono né all’esperienza di Francia e Germania, né a quella dei Paesi piu poveri della periferia europea che negli anni dell’euro vivono un boom che li porta ancora oggi, nonostante la crisi, ad avere livelli di vita piu alti che prima della nascita della moneta unica. Rispetto al 1999, la posizione di reddito relativa della Spagna in Europa è migliorata, quella dell’Italia è peggiorata.
Dopo la stagnazione viene la grande crisi e poi la quasi implosione dell’euro, eventi che sembrano avere origini esterne, ma i cui effetti devastanti sulla economia reale non si possono capire senza analizzare quei quindici anni di stagnazione precedenti. A quelli si sommano cinque anni di declino, quindi arriviamo a venti anni. Questo è un fatto unico nelle economie avanzate del dopoguerra. La combinazione di stagnazione e declino economico va al di là, per durata e gravità, del famoso decennio perduto del Giappone degli anni Novanta che ha ricevuto cosi tanta attenzione di cronaca ed è stato oggetto di molti studi.
Il tema che dovrà affrontare il prossimo governo è come innescare l’inversione di questo declino di lungo periodo. Ma il compito è difficile perché un Paese che ristagna o si contrae per vent’anni e che si tiene insieme grazie all’effimero effetto del debito pubblico fa fatica a trovare la forza per cambiare. La stagnazione crea stagnazione. Non solo perché, come si dice, i politici sono corrotti o inconcludenti, ma perché tutta la società e diventata restia al cambiamento, diffida di chi e diverso da sé e teme mutamenti che potrebbero ridurre la sua posizione relativa quando la torta si e ristretta.
Ci ricorda Giuseppe De Rita, nell’ultimo rapporto Censis, che nella crisi l’Italia ha però trovato una sua forza di resistenza che la ha aiutata a sopravvivere. Questa Italia resiste, ma non capisce né approva il messaggio della urgenza del cambiamento che il governo tecnico forse in modo astratto e pedagogico ha voluto dare ai cittadini. È stato questa mancanza di dialogo il limite di questo governo? Il messaggio di De Rita non si può non recepire: nessun Paese cambia se il progetto non ha radici nella profonda convinzione e partecipazione di pezzi importanti della società. Ma come il Giappone, l’Italia ha una società che come effetto della stagnazione prolungata si è arroccata su posizioni difensive e fondamentalmente conservatrici. Senza riscoprire una energia radicale e innovatrice in noi stessi e senza la mobilitazione di soggetti che credano all’urgenza del cambiamento e aprano un rapporto creativo tra governo e governati abbiamo di fronte a noi un declino. 


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