Ho trovato molto bella la prefazione di Ferruccio de Bortoli, che non è tra i miei giornalisti preferiti, ha scritto per il libro di Stefania Tamburello dedicato a Giovanni Agnelli (in uscita il prossimo 24 gennaio ) e pubblicata dal Corriere in occasione del decimo anniversario dalla scomparsa del grande italiano.
E' lunga e quindi non eccederò nella presentazione.
Io, come tanti, ho considerato Gianni Agnelli un grande aristocratico borghese, un principe rinascimentale, l'ultimo "monarca" italiano alla stregua di quelli costituzionali ancora presenti in Europa.
Un uomo stimatissimo ed ossequiato da vivo (nominato con plauso unanime Senatore a vita nel 1991 da Cossiga ), rispettato dalla sinistra e dai non juventini (il che è tutto dire ) , è stato poi molto attaccato da morto. Gli italiani hanno queste forme discutibili di coraggio.
Mi fermo qui, proponendomi di tornarci semmai in un altro post
Buona Lettura
IL RICORDO
Agnelli interprete del Novecento rimosso
Quella certa idea di Italia sabauda che seppe interpretare
il Novecento fino alla Seconda repubblica
A dieci anni dalla scomparsa di Gianni Agnelli, avvenuta il 24 gennaio 2003, il Corriere ricorda la figura e l'opera dell'Avvocato.
Gianni Agnelli nel 1984 (Ansa)
(f. de b.) Il passato prossimo è un tempo ormai scomparso. Caduto in disuso. In una società così aggrappata al presente, la storia si impossessa più rapidamente della cronaca appena vissuta. La divora. Ed è come se personaggi e avvenimenti venissero risucchiati inesorabilmente nelle viscere dei secoli. Sono trascorsi già dieci anni dalla morte di Giovanni Agnelli. In realtà molti di più. Un'epoca. Potremmo dire parlando dell'Avvocato: «Sembrava ieri...». Ma sarebbe una bugia pietosa, un'inutile cortesia post mortem . Personaggi che hanno riempito fino all'inverosimile l'allora nostro presente, dei quali mai avremmo pensato di poter fare a meno, sono scomparsi dall'orizzonte quotidiano dei loro posteri con una velocità insospettabile. Non ci sentiamo orfani nemmeno per un attimo e di nessuno. Immersi in un presente liquido, sovrabbondante di miti e mode, coltiviamo una memoria elettrica assai labile, che rimuove in fretta nomi e fatti con la stessa velocità con la quale si passa da uno strumento multimediale all'altro.
La nostra incapacità di concentrarci è pari alla crescente tendenza all’oblio della quale siamo vittime. Non sono passati soltanto dieci anni, quindi. L’immagine di elegante e distaccato potere dell’Avvocato, il capitalista più ammirato di un Paese che non ama l’impresa e invidia i ricchi detestandoli, appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento, il secolo che lo vide irresistibile interprete. La sua eredità è custodita e valorizzata con affetto e riconoscenza dai nipoti, in particolare John Elkann. Un’opera costante e silenziosa. Eppure insufficiente, perché al monarca riconosciuto in un Paese che ha cacciato il Re e disprezza l’autorità, è stato riservato il trattamento tipico delle corti rinascimentali. Osannato e incensato in vita, al di là del necessario; criticato e maltrattato, con abbondanza ingiustificata di eccessi, dopo la sua scomparsa. Agnelli è stato un protagonista straordinario del suo tempo, una personalità eccentrica, anche nei suoi modi d’essere, un’icona affascinante e irresistibile nell’esibizione annoiata dei suoi difetti, non pochi, ma è difficile spiegare perché sia stato abbandonato in tutta fretta sul marciapiede della storia. Anche dai molti che ne hanno beneficiato dell’amicizia. E non solo di quella.
Agnelli e Carlo De Benedetti (Ansa)
L’Italia è terra di slanci generosi e di inspiegabili amnesie. Il libro di Stefania Tamburello tenta di colmare questa lacuna. La letteratura sul suo conto, al limite dell’agiografia, è stata sterminata in vita, assai rara dopo la morte. La muta dei cronisti attenti a decifrare ogni sua parola, ogni suo gesto, anche il più piccolo e insignificante, non ha passato la mano agli storici. O questi ultimi l’hanno semplicemente ignorata. Non c’è stata finora una grande biografia degna di questo nome, salvo qualche scritto di storici di corte, né un tentativo scientifico di inscrivere la sua complessa, ma assai più ricca di quanto non si pensi, figura di imprenditore e ambasciatore del «made in Italy», nel quadro degli avvenimenti economici e politici del lungo Dopoguerra italiano. Sono apparse ricostruzioni assai parziali e inutilmente velenose sulle vicende familiari, causate anche dal processo sull’eredità intentato sciaguratamente dalla figlia Margherita. È rimasta una vasta aneddotica, quella sì, alimentata dai testimoni ma quasi esclusivamente a loro personale consumo. «Ricordo quel giorno in cui l’Avvocato mi ha chiamato all’alba», e via di seguito. Quando è mancato, in quel freddo gennaio torinese di dieci anni fa, la crisi della Fiat era già evidente. Ma non aveva ancora assunto i toni drammatici dei mesi successivi con quel succedersi affannoso di amministratori delegati sotto la presidenza del fratello Umberto che sarebbe morto il 27 maggio dell’anno successivo. La Fiat si è ripresa negli ultimi anni, anche se non del tutto, grazie all’opera di Marchionne, alla transizione di Montezemolo e alla tenacia dell’erede scelto, il nipote Elkann che oggi guarda al nonno nello stesso modo con il quale l’Avvocato si ispirava all’esempio del suo di nonno, il senatore Agnelli.
Ma la Fiat di oggi è molto diversa da quella lasciata dall’Avvocato che ne prese le redini, da Valletta, nel 1966 quando aveva già 45 anni. Marchionne non ha mai conosciuto Agnelli. Non è azzardato affermare che i due si sarebbero piaciuti. E molto. La storia del figlio dell’emigrante abruzzese in Canada arrivato al vertice mondiale dell’industria dell’auto e ritenuto dal presidente degli Stati Uniti un salvatore della patria avrebbe affascinato l’Avvocato, la cui curiosità assai femminile era incontenibile. Chissà quante domande! Poi immaginiamo che avrebbe detto, con il suo impareggiabile sense of humor al limite della perfidia, che una conversazione con Jacqueline Kennedy a Ravello era assai più intrigante di una visita con Obama a uno stabilimento del Michigan. Ma è certo che con l’Avvocato al vertice, Marchionne avrebbe tenuto giacca e cravatta e non si sarebbe mai spinto a fare molte delle sue ormai celebri provocazioni. La Fiat non avrebbe mai lasciato la Confindustria. Ma l’affare Chrysler forse, e sarebbe stato un peccato, non si sarebbe mai fatto. Sergio Romano in un suo scritto riportò una battuta ai tempi dell’accordo con General Motors.
La politica dell’Avvocato era quella dei Duchi di Savoia: troppo piccoli per fare a meno di un potente alleato, ma troppo ambiziosi per accettare alleanze permanenti. Agnelli era un uomo della Prima Repubblica, con una spiccata tendenza ecumenica e una vanità che lo teneva lontano dai conflitti più aspri e dalle contrapposizioni più dure — quella parte era svolta con risolutezza da Cesare Romiti —; voleva piacere, sedurre ed era terribilmente indispettito dal fatto che un parvenu come Berlusconi avesse qualità di comunicatore e di affabulatore superiori alle sue. Detestava il conflitto, cercava il consenso, esprimeva fastidio per la normalità. La prevedibilità lo irritava. L’imprevisto e il sottile senso del proibito ne accendevano all’improvviso l’entusiasmo, tanto immediato e giovanile quanto breve ed effimero. Ma non perdeva mai il senso di responsabilità per il suo ruolo di imprenditore e di rappresentante della migliore italianità in giro per il mondo. Questo è il punto, qui sta tutta l’essenza del profilo storico del personaggio, che va oltre l’immagine stereotipata da lui stesso incoraggiata, con superba civetteria, in vita, e resiste al tempo. Agnelli era orgoglioso della sua italianità. Al Paese avrà fatto certamente pagare qualche costo di troppo, ma era il suo Paese. La stessa cosa si può dire per molti suoi epigoni o di quelli che oggi lo liquidano come un semplice profittatore del denaro pubblico? No. E ci sarebbe mai stato il boom economico italiano senza la Fiat che diede lavoro a centinaia di migliaia di lavoratori? No. Mario Monti, ricordando i tanti anni trascorsi insieme, nella Trilateral, al Bilderberg, in numerose occasioni pubbliche e private, sosteneva che il volto dell’Italia nel mondo era solo quello del presidente della Fiat, ascoltato persino dai presidenti degli Stati Uniti (ovviamente mai avrebbe pensato di andarci lui, da premier, dieci anni dopo, alla Casa Bianca), ma confessava che «avendo dato grande credito al Paese forse aveva finito per pesare troppo sulla vita italiana. Può darsi che una personalità così carismatica abbia giovato più a non far perdere la fiducia della comunità internazionale che non a favorire l’ammodernamento dell’economia e della società». Vero, e in questa frase di Monti c’è anche, sottile, la spiegazione del perché sia stato dimenticato in fretta, come se la sua monarchia impropria avesse pesato per troppi anni su un Paese adorante, ma infido.
Tuttavia, il vezzo di sentirsi straniero in patria non apparteneva al costume di Agnelli. Viaggiava di continuo, aveva case un po’ dappertutto, ma poi alla fine tornava a Torino. In collina. La tendenza a considerarsi apolidi nella globalità che affascina molti italiani di successo internazionale non rientrava nel suo codice sabaudo, rimasto ancora, al fondo, un po’ militare. Si sentiva come investito di un ruolo pubblico assai prima del riconoscimento — che più lo inorgoglì perché lo equiparava al nonno — di senatore a vita, avuto da Cossiga nel 1991. Il presidente emerito della Repubblica, Ciampi, ricordò nei giorni del funerale che pochi, come lui, furono capaci di interpretare il carattere e l’identità nazionale. Non erano parole di circostanza. Dopo l’8 Settembre, la scelta di Agnelli e di Ciampi fu quella di difendere lo Stato nonostante la disfatta. Non si strapparono le stellette. Difesero la libertà senza lasciare l’uniforme. «Agnelli era fedele a una certa idea dell’Italia, credeva in un ideale risorgimentale». L’Avvocato non lasciò Torino negli anni del terrorismo; non vendette l’azienda quando avrebbe potuto farlo con sicura convenienza; la parte del rentiergli faceva semplicemente orrore; sentiva il peso del suo ruolo pubblico forse anche di più di quello privato. Non parlava mai male del suo Paese, tanto più all’estero. Era il più cosmopolita degli imprenditori, con amici veri sparsi un po’ ovunque, da Henry Kissinger a Jean Luc Lagardère, ma detestava una certa esterofilia d’accatto che tanto era in voga fra i suoi seguaci e allora scodinzolanti colleghi industriali, sudditi del ruolo e della primazia della Fiat. Era un cittadino del mondo che non dimenticava di avere un passaporto italiano, immerso totalmente nell’Italia della Prima Repubblica, la sua.
Agnelli con il nipote Lapo Elkann (Ansa)
La Seconda, che ha avuto come protagonista il Cavaliere (il quale confessò di tenere la sua foto sul comodino della camera da letto) non gli apparteneva affatto. Non la capiva, la giudicava volgare e noiosa. Guardava con sospetto e sufficienza la carica dei «berluschini», l’emergere disordinato ma vitale dei piccoli e medi imprenditori che non riconoscevano più in lui né il capostipite dell’industria italiana né il modello del successo da imitare. Il suo declino cominciò proprio da questa clamorosa incomprensione. Un errore imperdonabile per una intelligenza reattiva come la sua e la dimostrazione che il fiuto per l’aria del tempo non è per sempre. Passa come la giovinezza che Agnelli ha rincorso con acribia pari solo alla costanza con la quale ha inseguito le bellezze femminili in giro per il mondo. O meglio, come molte di queste hanno inseguito lui. La sua vita è stata anche una fuga dal destino avverso che si era accanito sulla sua famiglia. Il padre Edoardo morto nel ’35 per un banale incidente con un idrovolante nel porto di Genova. Il figlio che portava lo stesso nome, suicida nel 2000 gettandosi da un viadotto sulla Torino-Savona, costruito apposta per il transito verso il mare delle bisarche con le auto prodotte a Mirafiori. La scomparsa prematura dell’erede prescelto, Giovannino, figlio di Umberto, a 37 anni nel 1997. Una catena tragica che non increspò la sua immagine pubblica. Il pudore gli impediva di mostrare i suoi sentimenti, ed era buona educazione piemontese e familiare non farlo. Il dolore non apparve mai sul suo volto e un velo di cinismo si trasformò negli anni in una corazza elegante, ma impenetrabile. La grazia di cui era dotato, straordinaria, lo faceva oscillare dall’America di Scott Fitzgerald, all’Inghilterra elisabettiana, sebbene gli inglesi non gli piacessero. A Londra ci andò poco: non lo consideravano. Era di una gentilezza regale, inarrivabile, ma assolutamente incostante.
La noia era sempre in agguato, lo sguardo correva via veloce verso gli angoli delle stanze e l’interlocutore rimaneva appeso alle risposte abbozzate per le troppe domande. Il tempo era sempre troppo lungo, ma non scalfiva mai il codice della cortesia. Il senso della disciplina era forte come la voglia della sorpresa e della trasgressione. La cosa che gli piaceva di più era il vento, perché non si può acquistare, ma sulle sue tante barche ci rimaneva poco. Una crociera era improponibile. Sapeva godere dell’arte e della bellezza con competenza, ma conservando il vezzo di chiedere sempre un parere facendo finta di non averne mai maturato uno. Nella sua eterna fuga dal destino e dalla normalità, Agnelli non ebbe mai paura della morte. Quando la malattia non gli lasciò più nessuna speranza, si congedò quasi in punta di piedi. Chi è troppo in scena non sa come uscirne. Una volta volle leggere il «coccodrillo» (si chiamano così gli articoli che i giornali preparano in caso di morte improvvisa di personaggi celebri). Lo scorse soltanto, con leggero disprezzo, per poi concludere che avrebbe vissuto a lungo solo per smentire l’autore di un ritratto troppo lusinghiero. Il Novecento è stato il suo secolo. E lui l’ha rincorso con un leggero e perdonabile ritardo. Consegnando se stesso alla storia con l’understatement sabaudo di cui fu sublime e inimitabile interprete.
19 gennaio 2013 | 16:26
Nessun commento:
Posta un commento