Ieri Polito, in una sua nota sul Corriere della Sera, aveva lucidamente analizzato una cosa peraltro in corso da tempo e semmai sempre più evidente : il PD non è più un partito di centro sinistra, democratico in senso Liberal e/o americano, ma puramente di sinistra, più somigliante al dirigismo e statalismo del partito socialista di Hollande in Francia , che al laburismo inglese o anche alla socialdemocrazia tedesca (http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2013/01/il-pd-si-allontana-sinistra-sara-un.html ).
Del resto, i partiti post PCI sempre questo sono stati, disponibili a perpetuare il modello berlingueraino di compromesso storico, quindi di confronto con la parte del centro (per lo più cattolica...tra chiese....) più convergente sull'idea di prevalenza del pubblico sul privato, di intervento dello Stato in praticamente tutte le ramificazioni in cui si dirama una società, economia compresa.
Dopo il fallimento dell'Unione prodiana del 2006, venne partorita l'idea di una formazione unica tra queste due aree, per formare un partito che andasse OLTRE i recinti dei due gruppi fondanti . I Democratici, progressisti che andavano dai socialdemocratici ai liberali di sinistra, tagliando le parti estreme e inglobando quanta più parte possibile del centro aperto al riformismo. Una formazione da 40% e più dell'elettorato. Veltroni, il primo segretario e uno dei principali propugnatori , coerente con il suo mito kennedyano, arrivò al 33% , che come inizio era assolutamente dignitoso ma ciononostante perdente (del resto tutti i sondaggi davano vincente Berlusconi nel 2008, così come oggi accade per Bersani ). Renzi, che sarebbe stato il vero continuatore dell'idea originaria del PD, ha perso, sia pure con l'onore delle armi, una folle sfida a Bersani . Folle perché, accettando regole per cui alla fine alle votazioni partecipavano solo gli elettori già di area democratica, era palese che la vittoria sarebbe andata a chi controllava il partito e non solo per ragioni di apparato : o si aprivano le porte della Chiesa per vedere SE entravano altri fedeli, o si restava nell'ambito solito, e allora gli ortodossi erano di più, e così è stato, come del resto hanno confermato le cosiddette primarie per scegliere i candidati alle elezioni nazionali, che hanno visto prevalere i candidati più di sinistra.
Certo Bersani avverte forse che qualche problemino, sia ora che in futuro, potrebbe averlo con questo smottamento a sinistra. Per esempio, spingere alla mobilitazione dell'ultimo momento dell'elettorato di centro destra ma soprattutto anti sinistra, che in Italia non è inferiore al 50% degli elettori (in Francia è piuttosto simile la cosa ! La sinistra ha vinto grazie alla sua sufficiente unità rispetto alla dispersione a destra ) . In questo senso Monti più che un avversario, come pure hanno temuto e un po' ancora temono quelli del PD, si sta rivelando un alleato, drenando dal PDL il voto non di sinistra. La stessa cosa fa Grillo. Ecco perché si sono tenuti cari il Porcellum. Nel panorama attuale, piuttosto dispersivo, senza più i poli Berlusconiano e Anti, sono diverse le formazioni che prenderanno più dell'8% , entrando in Parlamento e rompendo lo schema bipolare : Il PDL, Monti, il PD e Grillo, sicuramente, e poi chissà, magari anche altri riusciranno a farcela, superando il 4%.... Ingroia e Di Pietro, Giannino (me lo auguro di cuore ) , la Lega, da sola o col PDL. Un bel ritorno alla prima repubblica, dove nessuno nemmeno sfiorava il 50% dei voti, ma grazie al premio di maggioranza, in odore di incostituzionalità ma chissene frega, oggi che ci fa comodo, il PD col 30 - 35% dei voti sarà il vincitore e avrà la maggioranza assoluta alla Camera. Al Senato, la partita è più aperta.
E proprio per vincere anche quella che Bersani ha convocato il panchinaro di lusso, Renzi, per provare a prendere parte di quel voto di centro sinistra che potrebbe disertare un PD che la parola centro l'ha abolita, di fatto. Nelle regioni cruciali, tipo Lombardia e Lazio (Roma è tornata di sinistra ma le altre province no ) quel voto potrebbe essere cruciale e il sindaco di Firenze è stato chiamato a dare una mano in Ditta. Avrà il suo premio. Gli auguro che sia lauto, perché da Renzi in molti speravamo qualcosa di diverso. Alla fine ha detto che lui non è uno di quelli che siccome perde se ne va via portando via il pallone. Giusto. Però al di là delle immagini suggestive, di cui Renzi è maestro, poi c'è la realtà, che da ragione ad Ichino, e forse torto a lui. Ma magari al buon Matteo fa bene un Pd in salsa nuova DC, dove tutto si tiene in piedi, andando da Fassina e lui, passando per Bersani. Il potere, o l'idea di esso, può favorire queste unioni. Certo, così si possono vincere le elezioni. Per governare, un pochino più complicato.
Ma su questo il PD è ermetico. L'obiezione viene ripetuta spesso, non tanto nelle interviste, tutte piuttosto servili, ma nei commenti e negli editoriali politici sì.
Quello che riporto è di Angelo Panebianco, penna principe del Corsera, che propone queste domande : chi saranno i ministri del probabile futuro governo Bersani ? E quale sarà il rapporto del Governo con un socio di maggioranza extra parlamentare, assai poco occulto, come la CGIL ?
Domande lecite , da elettori, ma che non riceveranno risposta.
Buona Lettura
LE CARTE (TROPPO COPERTE) DEL
PD
La necessaria trasparenza
I sondaggi danno il Pd come
il probabile vincitore delle elezioni. Però la campagna elettorale è lunga e
ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla
fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile
ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del
Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel
suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a
dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile
governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire
troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di
fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto.
Facciamo un esempio. Molti
danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri.
Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico
preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito
che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non
ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai
fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per
Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo
bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli
sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una
politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli
interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in
causa?
Politica estera a parte,
molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È
facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro
dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con
il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica
che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri,
quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica
amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi
di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire
quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del
principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo
Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia?
Non basta qualche virtuosismo
verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in
questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra
Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il
periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del
welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro
Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del
lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma
si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima
dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che
alla Cgil fanno riferimento.
Quando non ci sarà più
Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le
riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come
Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia
di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd?
Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di
neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è
andato?
Il ragionamento vale anche
per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della
scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte
conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso
meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato,
in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil.
L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla
Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica
amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito
modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali.
Il problema è reso ancor più
acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto
sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie
contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La
notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con
Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si
aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il
Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella
linea di un solido contraltare interno.
Poniamo che, dopo le
elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare
con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe
esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi
vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò
converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo
appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di
prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli
altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle
retrovie
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