Riflessione serie sulla Sanità Italiana. I suoi costi, le sue qualità, che pure ci sono, gli errori e le possibili soluzioni.
La propone Davide Giacalone. Siccome dopo la Previdenza, questa è la voce più pesante della Spesa Pubblica italiana,.e ragione di spaventosi deficit in tante regioni, io una letta la darei...
Sanità politica
L’antico testamento imponeva
di partorire con dolore, non prevedeva l’aggravio di costo, introdotto dalla
sanità italiana. Anziché mandare i carabinieri e spendere i soldi per una
ricerca, il ministro Renato Balduzzi poteva limitarsi a leggere Libero. Ne avrebbe
tratto doppio vantaggio: a. lo scrivevamo nel settembre del 2010, sicché il
clamore odierno c’induce a riflettere sulla pochezza di chi governa e la
smemoratezza di tutti gli altri; b. indicavamo cause e soluzioni. Sono certo
che si può tagliare la spesa pubblica migliorando il servizio, se solo si sa
dove mettere le mani.
Nel settembre del 2010 le
cronache restituivano notizie di bambini, talora con le loro madri, morti al
momento del parto. Epicentro del fenomeno: Messina. Che stava succedendo? I medici
erano divenuti delle bestie? No. Chiedo scusa per la contabilità macabra, ma
vedrete che i numeri dicono molto. Nelle sale operatorie italiane si muore meno
che nella media europea. La qualità dei medici è superiore, come anche
l’igiene. La mortalità infantile ammonta al 3,3 per mille dei nati vivi. In
Europa il risultato migliore se lo aggiudica l’Islanda (2,6), mentre in Gran
Bretagna c’è la più alta probabilità che un bambino non compia mai i primi
passi (5,3). Le cose vanno bene, quindi, dalle nostre parti. Ma le medie sono
solo dati indicativi, se si disaggregano i dati emerge un panorama orrendo: nel
primo mese di vita muoiono, al nord, il 2,5 per mille dei bambini, ma sono il
2,9 al centro e il 4,3 al sud. Se si allunga il periodo di riferimento,
arrivando a un anno di vita, le distanze crescono: nel sud muore un bambino
ogni 200, nel nord ogni 300. I dati sono chiari: se isolassimo il nord saremmo
i migliori d’Europa, se isolassimo il sud ci contenderemmo il posto di
peggiori.
La differenza fra nord e sud
d’Italia è data non dalla preparazione dei medici, e meno che mai da differenze
genetiche, ma dalla modalità di gestione della spesa e delle strutture
sanitarie. I dati appena fissati ci aiutano a dire una banale verità: non
esiste un Servizio Sanitario Nazionale, noi abbiamo tanti e diversi servizi
sanitari regionali. Follia.
Nel 2010, a Messina, una
circolare amministrativa impose ai medici ospedalieri di diminuire del 20% i
tagli cesarei. Scommetto che tutti pensano sia stata improvvida, ma prima di
randellare l’estensore vale la pena considerare un dato: secondo l’Ordine
Mondiale della Sanità le nascite con assistenza chirurgica dovrebbero stare
nell’ordine del 15%, in Italia raggiungono il 38, con punte del 50. Troppe. Ma
siccome il sistema è incapace sia di controllare l’effettivo bisogno del
bisturi, come anche solo di stabilire un nesso fra le spese e le necessità, si
affida alla statistica per guidare nel buio, sicché al reparto di cardiologia
potrebbero trovarsi davanti ad una valvola da impiantare dopo che è stato
superato il limite massimo previsto dalla riduzione delle spese, o in sala
parto entrare una donna bisognosa di cesareo dopo che s’è esaurita la quota di
quegli interventi. Prima di prendersela con i medici, allora, si tratta d’inseguire
i forsennati che hanno concepito un simile sistema.
La malattia di cui soffre la
sanità consiste: a. nella non separazione fra chi spende e chi controlla (le
vecchie mutue funzionavano assai meglio); b. nella collettiva irresponsabilità;
c. nell’irragionevole politicizzazione delle nomine; d. nella proliferazione
del personale amministrativo; e. nel trattamento burocratico e non
professionalizzante di quello medico. Al nord le cose funzionano meglio, anche
perché il controllo sociale è più attento. I conti del sud sono la prova
scientifica che peggiore è il servizio sanitario più alto è il suo costo.
Tagliare la spesa, imponendo i controlli e verificando la qualità, giova alla
salute economica, ma anche a quella fisica. Il guaio è che i politici sono
considerati fetecchie, per definizione, e quando arrivano i tecnici al governo
passano un anno per condurre una ricerca capace di scoprire quel che scrivemmo
due anni prima.
Se ci dotassimo di una fitta
rete di pronto soccorso, assistita da grandi ospedali adeguatamente attrezzati,
assicureremmo migliore assistenza con minore spesa. Ma questo significa
chiudere gli ospedali piccoli, che i pubblici amministratori difendono e dove i
loro elettori crepano. Se affidassimo il controllo della spesa non ad amministratori
nominati dalla politica, ma a mutue e assicurazioni, meno donne verrebbero
tagliate inutilmente e meno bambini esposti a danni che, tra l’altro,
costituiscono maggiori costi. Se trattassimo i medici come professionisti,
anziché burocrati della ricetta, li vedremmo ricomparire a casa quando ci
servono, mentre oggi porti il bambino dal pediatra anche se ha la febbre. Se
affidassimo la spesa sanitaria alla gestione privata, vincolandola ai
risultati, eviteremmo di spendere soldi pubblici per finanziare cliniche e
laboratori privati e apriremmo il grande mercato dell’innovazione, fornendo
assistenza domiciliare ai malati cronici, con loro maggiore comodità e minore
spesa collettiva.
Dite che non si trova il
consenso degli elettori? Proviamo a domandare loro: volete voi essere tassati
di più per potere poi essere squartati di più? E vediamo che rispondono.
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