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mercoledì 9 gennaio 2013

SI FA PRESTO A DIRE OBAMA



L'altra sera, a Piazza Pulita, c'era Giulio Tremonti, che la Lega indicherebbe come presidente del Consiglio nel caso la coalizione con il PDL risultasse vincente anche stavolta. Visto che non accadrà, che vincano, il problema per fortuna non si pone. L'uomo comunque, nella sua indiscutibile antipatia, universalmente riconosciuta, non è uno stupido, per quanto discusso e giustamente contestato. A suo tempo inventò la cd. "finanza creativa" e fece diversi guasti. Nella seconda esperienza al Ministero dell'economia, si applicò sui cd. "tagli lineari" che per un po' servirono a tenere in pareggio i conti correnti dello Stato, tanto che ancora prima di Monti l'Italia, senza salassi tipo IMU, godeva di un avanzo primario nella partita contabile della Spesa (altra cosa è il debito pubblico).
Niente di risolutivo, nessuna riforma epocale, ma galleggiamento. Poi arrivò l'attacco finanziario ai fondi sovrani, lo spread, e le cose precipitarono come sappiamo.
Scrisse anche un libro in cui denunciava i pericoli della globalizzazione, il collasso a venire dell'economia occidentale , di un sistema di prosperità fondato su welfare e norme del mercato del lavoro piene di garanzie e tutele, comuni a tutti i paesi UE e del Nord America, provocato dalla concorrenza invincibile di chi i costi di quelle regole non doveva sopportare. Si riferiva alla Cina, allora, a cui poi si aggiunsero India, Brasile, Russia ( il famoso BRIC  che si contrapponeva, trionfante, al tristo PIGS europeo ). Soluzione, per lui, era una sorta di guerra doganale, una tassazione adeguata ai prodotti provenienti da quelle aree, utile a bilanciare l'offensiva di prodotti a prezzi bassi che l'Occidente non poteva sostenere. Sappiamo che questo non è avvenuto, e che la replica del nostro mondo si vuole avvenga con la contrapposizione della maggiore qualità rispetto alla convenienza. Che mi pare una bella risposta, ma non pare che sia vincente.
Tornando all'oggi, ci sono due affermazioni di Tremonti che mi hanno colpito. La prima è la massa di denaro circolante che, secondo l'economista, è passata dai 400  miliardi di dollari di prima della crisi del 2008, ai circa 6 trilioni di oggi. Una cosa inimmaginabile.
L'altra, è l'affermazione categorica che la crescita economica è determinata dalla mano pubblica. Non ci sono altre strade.
Ora, io , come ricordo sempre, non ho studi economici alle spalle ma solo letture, e quindi sono più propenso ai dubbi e alle domande . Una è questa :  gli USA da anni stanno inondando di dollari il loro mercato, e con Obama ancora di più, con un debito aumentato in un solo quadriennio del 50% che manco una guerra persa..., come mai la loro economia stenta ?
Proprio di recente è stato superato il problema del Fiscal Cliff col solito compromesso al ribasso : aumentate le tasse ai ricchi, vale a dire quelli che guadagnano oltre 400.000 dollari l'anno, restando ferme quelle di tutti gli altri , e rinviate le decisioni in ordine ai tagli alla spesa.
La questione non è risolta, perché da qui a poco si presenterà un altro gravoso scoglio : l'approvazione da parte del Congresso dell'ennesimo sforamento del tetto di spesa pubblica.
Il tema non è solo americano, visto che il problema del rapporto tra tasse, indebitamento e livello di spesa pubblica riguarda in modo serio l'Europa (drammatico per il Sud della stessa).
E poi, mica saremo appassionati ed "esperti" di cose USA solo quando ci sono le elezioni no ?
Un articolo al tema lo ha dedicato Davide Giacalone e lo propongo di seguito.
Buona Lettura



Political cliff


Gli Usa hanno evitato il Fiscal cliff, ma devono affrontare il più complesso Political cliff. Molte delle cose che si sono scritte sono a dir poco incomplete, quindi tendenzialmente false, a cominciare dall’armonia bipartisan. Prima che tutti comincino a citare le lezioni americane sarà bene che almeno le studino.
Alcuni automatismi, legati a leggi passate, avrebbero portato, se non ci fosse stato l’accordo che c’è stato, a tagli di spesa e maggiori tasse per 600 miliardi di dollari, a partire dal primo gennaio. L’accordo, però, è ampiamente monco, perché lascia impregiudicato sia il problema del debito pubblico che quello del deficit, quindi dei tagli alla spesa pubblica, così rimandando alla fine di febbraio, quando Senato e Camera dovranno tornare a votare per fissare il tetto al debito pubblico. Ricordo che nell’estate del 2011 questo fu un autentico dramma, che contribuì non poco a far crescere il nervosismo di mercati poi orientati a speculare contro i debiti sovrani europei. Proprio l’avere lasciato in bianco le pagine più complicate ha portato alla convergenza di parte dei repubblicani (al Senato, dove la maggioranza è democratica, l’accordo è passato 89 a 8, alla Camera dei Rappresentanti, dove la maggioranza è repubblicana, 257 a 167). La partita politica, insomma, è ancora aperta.
Il presidente, Barack Obama, può cantare vittoria, come ha subito fatto, sul punto relativo al fisco: avevo detto che avremmo aumentato le tasse ai ricchi e lo abbiamo fatto. Piano con le fregole imitative, piano con il dire: facciamo come gli americani. Anzi no, facciamo certamente come gli americani: per i singoli che guadagnano più di 400 mila dollari l’anno, o per le famiglie che superano i 450, l’aliquota passa dal 35 al 39,6%. In Italia è, per i redditi che superano i 75 mila euro, al 43% (più le addizionali, cui si aggiunge un contributo perequativo, giungendo al 48% sopra i 150 mila), ovvero esattamente quelli che Obama ha voluto proteggere. Grazie a questa aliquota, del resto, i percettori di redditi superiori a 400 mila sono una specie in via di estinzione, assai meno numerosi dei Panda.
Cresce, negli Usa, anche la tassa sulle successioni, passando da 35 a 40% per i redditi superiori a 10 milioni di dollari. Da noi è esente solo, e se la successione è in linea retta, quel che sta sotto a 1 milione. Facciamo come gli americani? Ci sto. Anche per quel che riguarda la lotta all’evasione. Ma facciamolo sul serio, non a orecchio.
Scampato il Fiscal cliff resta il pericolo del Political cliff, nel senso che quando torneranno dalle vacanze dovranno affrontare il problema del debito pubblico (che sotto la presidenza Obama è cresciuto del 50%, cosa mai vista in passato) e dei tagli alla spesa. A quel punto la presidenza democratica dovrà pagare il debito contratto con l’ala trattativista dei repubblicani. E mentre non ci vuole moltissimo a fare accordi che servano a non aumentare le tasse, o ad aumentarle per gli scaglioni marginali (si tenga presente che i ricchi veri non hanno redditi rilevanti, perché sono le loro società a garantire un tenore di vita più che soddisfacente), la cosa si fa più complicata quando si tratta di tagliare i soldi che dallo Stato vanno verso cittadini e sistema produttivo. In un Paese dove il 25% degli elettori (i più ricchi) paga la quasi totalità delle imposte dirette e il 50% paga poco e riceve molti trasferimenti. Senza contare che un debito così alto (sommato a un indebitamento privato che da noi non ha eguali) è governabile da chi ha sovranità monetaria, ma non senza pagare prezzi politici. In assenza di crescita sostenuta, che non c’è, l’equilibrio è alquanto precario.
Negli Usa, come da noi, il nodo vero e duro è quello della spesa corrente, quindi del modello di welfare. Se non si affronta quello si corre comunque ai bordi del Political Cliff, nel quale non saranno i ricchi a cadere, ma quella classe media, che è classe generale, in cui s’incarnano le nostre democrazie. 


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