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mercoledì 29 maggio 2013

IN UNA PARTITA A PERDERE, IL VANTAGGIO E' PER IL PD


Tra le tante analisi che si susseguono dopo il voto di domenica, non poteva mancare il contributo di Antonio Polito. Tra le diverse argute osservazioni che il politologo fa, una la trovo più pregnante di altre : in una Italia che fugge dalla politica, dove il disamore e il disimpegno si estendono, a pagare meno ( perché i voti diminuiscono anche lì ) dazio è il PD, unico vero erede dei partiti di massa, più segnatamente il PCI, che può contare su uno zoccolo duro militante che si erode (il ricambio generazionale funziona marginalmente, l'elettorato invecchia soprattutto su quel fronte) ma è ancora sostanzialmente fedele. Insomma i suoi trecento spartani il PD li avrà sempre, gli altri no.
Solo alle politiche l'elettorato moderato, da sempre maggioritario nell'Italia Repubblicana e che tuttora rappresenta circa i due terzi dei voti, si risveglia un po'. Ma nelle elezioni locali ha sempre prevalso il principio della "libera uscita" (copyright Andreotti) , che si è rafforzato con il nuovo sistema di votazione, anche per una migliore (o meno peggiore) selezione dei candidati.
Ho il sospetto che, segretamente, anche Grillo si iscriverà al numeroso fronte (non confesso) degli amici del  Porcellum e delle liste dei nominati...
Buona Lettura

L'EDITORIALE

Una domanda di governo

Non sempre opporsi paga

Dire che il voto di domenica abbia premiato il governo è certamente esagerato, soprattutto con queste percentuali di astensione. Ma di sicuro ha premiato il governare. Si è diretto cioè verso forze politiche disposte ad assumersi la responsabilità del fare, dell'amministrare la cosa pubblica. Tra queste non c'è il Movimento 5 Stelle. In democrazia anche il voto di protesta contiene sempre una richiesta di governo, seppure di un governo diverso. In assenza di risposte, la protesta ritorna nel non voto. È quello che, più o meno, ha fatto la metà degli elettori di Grillo. Il Movimento è così rientrato in limiti elettorali più fisiologici. L'anomalia non è ciò che è accaduto domenica, ma ciò che era successo alle elezioni politiche. I miracoli non si ripetono. E la reazione del leader, che rispolvera la sciocchezza antropologica di una Italia «migliore» che sta con lui e di una «peggiore», composta da più di venti milioni di pensionati e impiegati pubblici, che lo osteggia per interesse, rende anche più difficile che si ripetano.
La notizia della morte del bipolarismo destra-sinistra era dunque lievemente esagerata. Né sembra imminente la sua trasformazione, auspicata da Grillo, in una sfida tra lui e Berlusconi. Perché il Pd resiste. Pur nella crisi, dimostra di essere fatto di un materiale che è facile da piegare ma difficile da spezzare: il radicamento territoriale, ereditato dal Pci e dalla Dc, e una rete di amministratori locali credibili o esperti. Una cosa sono i trecento dirigenti che ne combinano di tutti i colori a Roma. Un'altra i tre milioni di elettori che corrono alle urne qualsiasi cosa accada a Roma, lo zoccolo duro del partito. Questo spiega perché meno gente vota e meglio va il Pd: dispone degli elettori più militanti, fino al limite del masochismo, e degli eletti più attendibili. E spiega anche perché se tornassero i collegi uninominali ai «grillini» non basterebbe più Grillo per prendere voti.
Esce in ogni caso smentita da questa consultazione la tesi che solo l'opposizione paghi, purtroppo molto di moda negli ultimi anni. Quello di domenica non è stato infatti un voto antigovernativo. C'è materia di riflessione per il Pd. Proprio quando i suoi critici interni lo giudicavano destinato ad essere spazzato via dall'alleanza con il Pdl, ha ridato un segno di vita. Mentre quando ha imitato il movimentismo e la protesta, come in campagna elettorale e subito dopo, ne è uscito a pezzi. D'altra parte è stato il «governo dell'inciucio» di Letta a far sua l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, non il «governo di cambiamento» promesso da Bersani. Né vale l'obiezione che a Roma è arrivato primo il più anti-governativo dei candidati del Pd, Ignazio Marino, perché nella capitale il successo porta ben impresso il marchio governativo antico del sistema di relazioni di Goffredo Bettini.
I «governativi», però, devono stare attenti a non farsi illudere dallo scampato pericolo. Il gigante dell'opinione pubblica non si è affatto placato. È in attesa. Della politica gliene importa fino a un certo punto. Vuole un governo, e vuole che faccia qualcosa. A Letta e ad Alfano ha dato tempo, non consenso. Non ha voluto che tirassero le cuoia prematuramente, ma non permetterà che tirino a campare.

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