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venerdì 26 luglio 2013

25 ANNI FA MARINO SI CONSEGNAVA ALLA GIUSTIZIA PER RACCONTARE LA (SUA) VERITA' DELL'OMICIDIO CALABRESI


Il processo Calabresi è, insieme a quello Tortora, uno di quegli eventi che mi fece capire, una volta per tutte, che era assurda la fiducia preconcetta, a prescindere, nei magistrati, e questo valeva anche per me  che pure uno lo avevo per padre ( e  bravo e serio, a differenza di molti di quelli odierni...) .
L'omicidio del Commissario Luigi Calabresi avvenne il 17 maggio 1972. L'ultima sentenza, quella definitiva, si ebbe nel 1997, 25 anni dopo... In realtà il processo ebbe inizio solo nel 1990, quando Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, ebbe una crisi di coscienza e andò a confessare il delitto, accusando se stesso insieme a Adriano Sofri , Stefano Pietrostefani ( mandanti) e Ovidio Bompressi (esecutore materiale, Marino era alla guida dell'auto).  Alla fine di un'odissea giudiziaria che vide sette processi ordinari, più vari procedimenti volti alla revisione degli stessi e infine anche un ricorso all Corte di Strasburgo, restarono confermati i verdetti di colpevolezza, con condanne a 11 anni per Marino (che aveva confessato e aveva collaborato...), 22 per gli altri tre. Pietrostefani è tutt'oggi latitante, Bompressi ebbe la grazia dal Presidente Napolitano, mentre Sofri, che ha sempre ritenuto inammissibile chiedere la grazia, sapendo di essere innocente (beh, sicuramente lui lo sa se lo è o no ) , ha finito di scontare la pena nel 2012 ( 5 anni in meno, sconto dovuto a buona condotta e all'indulto del 2006 ) , ma dal carcere era già uscito in precedenza, per ragioni di salute, con mutamento della restrizione negli arresti domiciliari.
Quindi 12 sentenze 12, di cui tre di condanna e una anche di assoluzione, con ben due annullamenti - con rinvio - da parte della Corte di Cassazione, l'ammissione al processo di revisione (poi conclusosi sfavorevolemtne per gli imputati)....
Chi può pensare che alla fine di un iter simile si sia andati oltre il ragionevole dubbio necessario per condannare qualcuno ??
Eppure, all'opposto, c'è chi può sostenere, e lo fa, legittimamente, che a Sofri e agli altri sono state offerte tutte le possibilità processuali del mondo e alla fine sono stati dichiarati colpevoli, e le sentenze "vanno rispettate".
Ovviamente io sono schierato nella prima fazione, però noto come buona parte della sinistra si sia mobilitata per Sofri, e ci sia stata una domanda di grazia presentata all'allora presidente Scalfaro (ebbene sì, pure questa disgrazia abbiamo avuto ; un Presidente della Repubblica come costui...)  da ben 200 (duecento !!) parlamentari e accompagnata da ben 160.000 firme di cittadini di vario rango, senza parlare che tutta la stampa che conta era favorevole al provvedimento. Mi piace immaginare che non fosse per simpatia per un assassino ma per effettiva convinzione della sua innocenza !
Questo per dire che i processi sono uno strumento d'ordine, qualcosa che serve per regolare la vita dei cittadini e la verità che da essi emerge è inevitabilmente solo una verità processuale , che può ovviamente coincidere , anzi è auspicabile che avvenga il più spesso possibile, con quella effettiva, ma non sempre succede. Gli errori ci sono, così come a volte delle vere e proprie persecuzioni (Tortora) . CI si deve battere perché i primi siano ridotti al massimo ( e per farlo, quando si è in dubbio, non accontentarsi della verosimiglianza e ASSOLVERE) e le seconde siano punite fino a sparire.
Interessante, nell'anniversario dei 25 anni dalla costituzione di Marino all'autorità giudiziaria, l'intervista che la Stampa gli ha proposto e che lui malvolentieri (così afferma) ha accettato di rilasciare.
Buona Lettura

Marino: “Eravamo una generazione persa, ora sono me stesso”

Leonardo Marino, 67 anni, nella sua crêperie a Bocca di Magra, in provincia de La Spezia
Sono passati venticinque anni da quell’estate in cui un colpo di scena riaprì le indagini sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972. Accadde un fatto più unico che raro: un uomo libero, incensurato e non sospettato di alcunché si presentò dai carabinieri per dire: sedici anni fa ho ucciso un uomo. Il suo nome è Leonardo Marino. Quando partecipò, come autista, all’agguato al commissario, aveva 26 anni; quando si costituì 42; oggi ne ha 67.
Dopo qualche titubanza, in quel luglio di venticinque anni fa Marino fece i nomi anche del complice, Ovidio Bompressi, e dei due mandanti, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Tutti ex militanti di Lotta Continua. Gli arresti scattarono il 28 luglio 1988. Marino è stato condannato a undici anni (poi prescritto); Sofri, Pietrostefani e Bompressi a ventidue.
La confessione di uno degli imputati pareva sufficiente a spazzare via qualsiasi dubbio: ma il Paese si divise ugualmente. Per anni Marino è stato investito da una campagna tesa a screditarlo. Si disse che si era inventato tutto; che aveva preso soldi dai carabinieri; che il Pci aveva ordito un complotto per regolare vecchi conti con Lotta Continua. Si disse che Marino voleva riscattarsi (economicamente) da un’esistenza grama, visto che vendeva le crêpes a una bancarella di Bocca di Magra. Oggi comunque è ancora lì, a Bocca di Magra, a vendere crêpes. Arriva all’appuntamento con una Citroën C3.

Marino, che cosa ricorda di quel luglio di venticinque anni fa?
«Cerco di non ricordare. Tre giorni fa è venuto un signore e mi ha chiesto: “È lei Marino?”. Ho risposto di sì, e lui: “Allora voglio darle la mano”. Ma la maggior parte della gente che passa di qui non sa niente. E a me va bene così».

Per una volta, le chiediamo di ricordare.
«Andai per primo dal prete di Bocca di Magra, don Regolo. Poi dal senatore Bertone del Pci, perché per me il partito era importante. Da lì nacquero le leggende sul complotto del Pci, alimentate anche dal fatto che pure il mio difensore, l’avvocato Gianfranco Maris, era un ex senatore comunista. Ma Maris era stato chiamato come difensore d’ufficio da Pomarici, il pm che mi interrogava. Era estate, a Milano non c’era nessuno. Pomarici aprì la porta e il primo che incontrò in corridoio fu Maris».

Andiamo avanti con Bertone: che cosa le disse?
«Di andare dai carabinieri».

E lei?
«Andai dal maresciallo del paese, Ameglia».

Dove, a quanto pare, lei fu trattenuto a lungo.
«Lì nacque un’altra leggenda: quella di Marino imbeccato dai carabinieri. La verità è semplice: che cosa volete che ne sapesse il maresciallo di Ameglia dell’omicidio Calabresi? Era roba più grossa di lui. Per questo chiamò i suoi superiori, i quali poi mandarono il colonnello Bonaventura dell’antiterrorismo».

Che la tenne lì un po’ in caserma. Perché?
«Se vai dai carabinieri a confessare un reato, per giunta così grave, è ovvio che prendono informazioni sul tuo conto. Scoprirono presto che a Torino c’era un fascicolo su di me per il mio passato in Lotta Continua. Cercarono di capire se ero credibile, dopo di che mi portarono a Milano in Procura».

Gli ex di Lotta Continua insinuarono che lei era stato pagato per parlare.
«Intanto, non si capisce che interesse avrebbero avuto i carabinieri a costruire false accuse contro un movimento che non esisteva più da oltre dieci anni. Secondo, se avessi messo in piedi una storia del genere per soldi, mi sarei fatto pagare bene. E invece come vede sono sempre qui come venticinque anni fa: a fare crêpes fino alle due di notte».

Non ha avuto altri vantaggi?
«E quali? Avrei potuto chiedere la protezione come collaboratore di giustizia, e ho rifiutato. Avrei potuto cambiare nome come Peci e Barbone, e non l’ho fatto».

Rifarebbe quello che ha fatto venticinque anni fa, viste le insinuazioni, i sospetti?
«Mi sta chiedendo se mi sono pentito di essermi pentito? No. Adesso sono me stesso. Certo: qualcuno mi dà del traditore. Ma io posso andare in giro a testa alta».

Si aspettava da parte degli ex compagni di Lotta Continua una simile campagna contro di lei?
«Me l’aspettavo. È il loro stile. Hanno fatto con me quello che avevano fatto con Calabresi».

Quanto tempo è stato in carcere?
«Un paio di mesi a Opera. Poi un paio d’anni agli arresti domiciliari».

Da quanto tempo non vede più i suoi tre ex complici?
«Sofri e Bompressi dall’ultimo processo, nel 2000. Pietrostefani era già latitante all’estero da tempo».

Che opinione ha di loro?
«Ognuno fa i conti con la propria coscienza».

A chi dei tre si sente più legato?
«A Bompressi. Era uno come me. Uno di quelli che quando tiravano una pietra non nascondevano la mano».

Quanti le credono, tra gli ex di Lotta Continua?
«Al di là della propaganda, tutti sanno che ho raccontato la verità. Solo pochi però hanno il coraggio di esporsi. L’ha fatto Casalegno, l’ha fatto Mughini. Ma gli altri dicono: chi me lo fa fare?».

Sofri al processo ha negato tutto, anche le rapine.
«L’avvocato Maris mi diceva: saranno condannati dalle loro stesse parole. Hanno negato anche di fronte all’evidenza, come le pistole rapinate all’armeria Leone di Torino e trovate in possesso di militanti di Lotta Continua. Credo che Sofri volesse dare una visione totalmente immacolata di Lotta Continua».

Marino, lei ha detto che Sofri le confermò il mandato a uccidere Calabresi a Pisa, dopo un comizio. Non ha nessun dubbio su quel colloquio?
«Mai avuto dubbi. Le parole esatte non le posso ricordare. Ma certe cose si possono capire solo tra chi è stato in un certo ambiente. Io avevo chiesto a Pietrostefani garanzie per la mia famiglia nel caso fossero andate male le cose, e volevo rassicurazioni da Sofri. Loro dicono: a Pisa non ci fu il tempo per parlarsi, si era sotto il palco di un comizio. Ma lui sapeva già tutto, gli bastò un attimo per darmi la conferma. Non c’è possibilità di equivoco. Non si dicono certe cose a chi deve andare a distribuire dei volantini».

Non ha mai pensato che in realtà fu Pietrostefani a decidere l’omicidio, e che Sofri subì la decisione?
«Questo non lo posso sapere. Sicuramente “Pietro” era più propenso a passare alla lotta armata. Però ripeto: non lo posso sapere».

Sofri aveva un grande ascendente su di lei?
«Ce l’aveva su tutti noi».
È vero che ha chiamato il suo primo figlio Adriano in onore di Sofri e il secondo Giorgio in onore di  
Pietrostefani?
«Adriano sì, è per Sofri. Giorgio un po’ per Pietrostefani e un po’ per un altro ex di Lotta Continua, Giorgio Merlo di Torino».

Spera ancora che qualcun altro confessi?
«Lo spero ma non ci credo. La loro scelta l’hanno fatta».

Perché pensa che non confesseranno mai?
«Per troppo orgoglio».

Non crede che qualcuno avrebbe diritto alla verità?
«La verità è stata stabilita da ben sette processi, più quello di revisione a Venezia, concesso per motivi che non stavano né in cielo né in terra».

Calabresi fu ucciso solo da voi quattro?
«Sono sicuro che ci furono dei complici d’appoggio, ma non lo posso dire perché non so i loro nomi».

Quando è finita la sbornia ideologica di quegli anni?  
«È venuta meno in modo travagliato e prolungato. Ci furono anni di euforia: pensavamo di fare la rivoluzione. Poi c’è stato, man mano, un tirarsi indietro. Lotta Continua alla fine si è sciolta. Io ho pensato: ma che cosa ho fatto fino ad ora? Quello che mi hanno detto per anni erano tutte balle? Il potere agli operai, l’esaltazione di Mao e del Che... Tutto finito? Allora c’è stato un lento e progressivo ripensamento di tutta la mia vita. Io, noi, abbiamo avuto l’impressione di una generazione persa per colpa di pseudo-intellettuali che predicavano cose assurde». 

Quando, nell’estate 1988...
«Quando ho confessato ero già distaccato da Sofri da un pezzo, se è questo che vuol dire. Posso aggiungere una cosa?»

Certo.
«Vorrei che lei scrivesse che io non avevo alcuna voglia di fare questa intervista. Ho accettato solo perché in qualche modo devo ancora farmi perdonare dalla famiglia Calabresi. Ma chiedo il diritto a vivere una vita normale. Faccio fatica, ogni volta, a parlare di queste cose».

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