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mercoledì 17 luglio 2013

BATTISTA E GIACALONE : RIFLESSIONI SU PAROLACCE, RAZZISMI E DINTORNI

 
Dopo l'indignazione da tanto al chilo esplosa subito dopo l'effettivamente incresciosa uscita del leghista ( e anche ex ministro...) Calderoli, ecco che arrivano riflessioni più generali e quindi più serie.
Ne propongo due, di diverso tenore, non perché dicano cose opposte, ma perchè mettono l'accento su aspetti diversi.
La prima è del Direttore Pierlugi Battista, del Corsera, la seconda è quella di Davide Giacalone, opinionista di Libero e Tempo.
Personalmente condivido più la seconda, come si noterà dai passaggi evidenziati, ma sicuramente molte delle considerazioni di Battista sono corrette. 
Buona Lettura

PIERLUIGI BATTISTA  
 "ANCHE GLI INSULTI HANNO UNA STORIA"


"Dicono: lo fanno tutti. No. Roberto Calderoli l'ha fatto peggio degli altri. Dicono anche: ma il bestiario da scagliare contro il nemico è una prassi consueta. È vero, è una pessima consuetudine, degna del primitivismo che domina il lessico politico italiano. Ma quell'«orango», buttato addosso alla signora Kyenge, non è un animalesco insulto... ordinario. È un insulto speciale, che vuole dire proprio una cosa, che ha una storia alle spalle, che è sovraccarico di sottintesi che non si possono definire altrimenti che «razzisti». È vero, si fa un abuso intimidatorio del termine «razzista». Ed essere a favore dello «ius sanguinis» anziché dello «ius soli» non fa un razzista di chi lo propugna. Ma dare dell’«orango» a una donna di colore, per provocare risate e consenso nel contesto di un comizio, è specificamente razzista. Lo è storicamente: da sempre nell’iconografia cara al Ku Klux Klan il «negro» è paragonato, o addirittura identificato, a una «scimmia». Da sempre l’immaginario razzista si nutre dell’immagine del «negro» inferiore come di un sotto-uomo dai tratti scimmieschi: un gorilla, uno scimpanzé. O un orango, appunto. Darwin non c’entra. Non sono i nostri (presunti) progenitori a essere chiamati in causa, ma i nostri antenati che sono restati indietro, che non si sono sviluppati e, schiavi dei più bassi istinti naturali, non sono entrati nello stadio della civilizzazione. «Bingo Bongo» sta sugli alberi, come le scimmie. Nelle edizioni del «gioco dell’oca» dell’epoca fascista, le caselle con i bambini neri raffiguravano esseri umani molto simili a delle scimmiette. Una gaffe, dicono ancora. Un incidente, un’imprudenza, una cosa buttata lì con i freni inibitori allentati. Appunto: quando le inibizioni crollano, le pulsioni si manifestano senza le briglie dell’opportunità e della buona educazione. Esce fuori il profondo, normalmente seppellito sotto strati di autocensura civilizzatrice, di ossequi alle convenzioni. A Calderoli è sgorgato spontaneo il paragone. Non ha detto cane, o orso, o coccodrillo. Ha detto «orango» come l’hanno detto migliaia e migliaia di suoi predecessori che hanno dileggiato, raffigurato, deriso, linciato i neri come «scimmie». Ecco perché l’argomento del «così fan tutti» non regge. Il Giornale , in un estremo tentativo, se non di difendere l’indifendibile, quanto meno di attenuare l’impatto di quell’«orango» sventurato, elenca tutti i casi in cui i politici sono stati paragonati ad animali: «topo» a Giuliano Amato, «rospo» a Lamberto Dini e così via. Ma veramente non colgono la differenza offensiva di un insulto così carico di storia nella triste vicenda del razzismo come «orango» riferito a una signora di colore? Anche «caimano» a Berlusconi non è affatto piacevole: concetto che fa fatica a entrare nella testa di chi considera del tutto ovvio che si dia del «nano» a Brunetta e si crocifigga Ferrara come un «ciccione». Ma la qualità prettamente razzista del dileggio di Calderoli è autenticata dalla storia e dalla consuetudine. Se dipingi uno qualunque con un naso adunco è un conto, ma se dipingi un ebreo con il naso adunco e la fisionomia repellente il tratto antisemita di quel disegno è inequivocabile. E così difficile capirlo? Ieri in Senato il (purtroppo) non dimissionario vicepresidente Calderoli si è detto «rammaricato» per il «gravissimo errore» commesso. Ma a furia di chiamarlo errore, senza assumersene la responsabilità e rifiutandosi di capire il significato vero di ciò che si è detto, si finisce per non comprendere perché quell’errore sia stato commesso, quale deposito di stereotipi razziali sia stato saccheggiato nell’attimo preciso in cui Calderoli ha sfoderato quell’orribile «orango». Dunque non è stata l’animalizzazione generica dell’avversario a rappresentare l’errore, ma quello specifico link mentale che quell’insulto rivolto a quel ministro con quel colore della pelle ha voluto richiamare. Che poi ci sia stato un effetto non voluto, il problema è solo di Calderoli. Un uomo politico non può farsi dominare dai fantasmi dell’inconscio, e se quell’inconscio è strutturato secondo stereotipi in cui il nero richiama inesorabilmente la scimmia, allora il problema di un singolo diventa un problema della collettività. Non è vero, presidente Maroni?"


DAVIDE GIACALONE

La parolaccia

Il problema non è Roberto Calderoli, che gli oranghi è in grado di farli rimpiangere. Per la raffinatezza del loro ragionare e l’eleganza del loro eloquio. Il problema è tutta intera una vita pubblica che a forza d’inseguire il linguaggio del bar è precipitata in quello della bettola. Quella d’ora tarda, quando gli ultimi avventori sono anche i più intossicati. Gli accostamenti animaleschi sono da ora di ricreazione nella scuola elementare e, nell’inescusabilità di quel che Calderoli ha detto, gli va riconosciuto il merito di avere chiesto scusa. Vale quel che vale, ma faccio osservare che la scena è piena di gente che ne dice di peggiori e non solo non chiede scusa, ma si ritrovano sulle prime pagine. Senza scandalo. Meglio non dimenticare che il più riuscito capo politico dell’ultimo anno, il vincitore morale delle scorse elezioni politiche, Giuseppe Grillo, non riesce a compitare una frase senza infilarci un’oscena percentuale di turpiloquio.
La parolaccia segnala un comune sentire di mondo politico e società civile, o, meglio, incivile. Prima di decrittarne la portata, però, mi tocca un breve inciso: considerai male la nomina di una ministro nera al ministero dell’integrazione e considerai sbagliate le sue prime proposte politiche, ribadisco quei giudizi, accompagnandoli con la condanna delle caldarolate. Aggiungo che la reazione di Cecile Kyenge alle parole di Calderoli denotano notevole avvedutezza, ovvero l’opposto di quel che lo stesso ministro dimostrò pretendendo di non stringere la mano a un rappresentate del popolo italiano. Se ha imparato, me ne compiaccio.
Torno alla parolaccia. Quando è d’uopo il linguaggio paludato può capitare che il ricorso a un termine forte sia utile a rompere la stagnazione o a segnalare qualche idea forte. Quando, all’opposto, ci si fa forti delle parole troppo colorite è segno che le idee si sono sbiadite fino a scomparire. Tale fenomeno involutivo è utile per capire la ragione che colloca la società italiana in uno stallo senza apparente via d’uscita. Spesso ci si domanda: ma come è possibile che la classe dirigente non si accorga di quel che è evidente? Perché non si fanno le cose necessarie? Perché non si ascolta la gente, che ben conosce i problemi reali? Risposta: perché incapacità e viltà sono ben distribuite, dal vertice alla base. Come le parolacce.
Qualche tempo addietro mi stupii d’essermi rilassato e divertito alla vista di un film di Ficarra e Picone. Solo alla fine mi resi conto della particolarità: non c’erano parolacce. Ciò me lo faceva passare da bello a sublime. Perché anche la comicità, quasi tutta super politicizzata, non sa più fare a meno del vocabolo triviale, al cui ricorrere scattano subito gli applausi televisivi. Falsi di una falsità imbarazzante. Dai comici al cittadino che vuol mostrare la propria indignazione si passa senza che cambi il vocabolario. Non basta dire che il Tale dovrebbe essere rimosso, lo si deve ingiuriare e desiderare impalato. Altrimenti l’idea non si rende. Da qui poi parte un fenomeno noto: arriva qualcuno e diventa interprete di quel linguaggio, a sua volta ripetuto dall’informazione e accettato come normale. Quei leaders naturali trovano in seguito seguaci ed emuli, fino allo scadere in bettola per avvinazzati terminali. Contro tutti loro non si scatena la reazione delle persone dabbene, ma quella assai più forte ed evidente della bettola concorrente. L’alito che ne emana è complessivamente mefitico.
La volgarità del vocabolo è prodotto e produce volgarità del pensiero. Oramai è più facile che ti apprezzino o detestino per dove scrivi, piuttosto che per cosa scrivi. E se dal tuo dire non si capisce bene da che parte stai, dando per assodato che se non stai dichiaratamente da una parte è segno che sei un venduto alla parte opposta, allora te lo chiedono, procedendo poi con il pregiudizio già confezionato. L’Italia fascista era così, sebbene usasse un vocabolario più fantasioso: memorabile il mussoliniano “panciafichisti”. La derisione dell’altro era il collante della truppa. Quell’Italia profonda è tornata a galla. A sganciarla dal fondo, ove con vergogna era stata ancorata, fu il biennio giustizialista del 1992-1994. Dal cappio d’allora ai manipoli sboccati è stato un percorso inglorioso, cui non si sono sottratti in molti.
Va bene, ci sto: datemi pure del boccuccia. Gliecché vedo avanzare lo schiacciasassi sull’Italia che ha troppo da fare per potersi sboccare e non credo proprio che serva a nulla far le boccacce a quel pericolo. Suggerisco, però, di valutare l’ipotesi che le idee sane non hanno bisogno di linguaggi malati, mentre le parole violente possono anche essere prive d’idee, ma non per questo incapaci di generare violenza. Gli oranghi lo sanno, per questo si battono il petto evitando di scannarsi a vicenda. Che invidia

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