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lunedì 28 ottobre 2013

GALLI DELLA LOGGIA E IL GIOCO DEL "TOCCA AGLI ALTRI "


Nella vulgata piuttosto insensata per la quale i mali d'Italia vadano fatti risalire alla discesa in campo di Berlusconi e ai suoi "20 anni di governo" (dimenticando che in realtà , durante l'era berlusconiana, la sinistra ha governato almeno tanto quanto, considerato che anche il governo Dini aveva l'appoggio decisivo del PDS e dei Popolari, oltre che della Lega Nord) , viene non si sa come rimossa tutta la parte precedente, dove non è che a vizi stessimo proprio scarsi...
Nel suo lungo ricordo - ben 600 pagine - Claudio Martelli non ha difficoltà ad ammettere come la voragine dei conti dello Stato inizi con il centrosinistra, e cresce progressivamente fino ai provvedimenti drastici di Amato e Ciampi (il famoso prelievo del 6 per mille nella notte del luglio 1992).  Nel 1967 il rapporto tra debito e PIl era inferiore al 40%, nel 1994 era al 121% !!!. Quando Berlusconi (che il debito non lo ha mai combattuto, anzi) si dimette, nel novembre 2011, è allo stesso livello, oggi stiamo intorno al 130 !
Questo non vuol dire che il Cavaliere abbia fatto bene, ma che l'Italia sia passata dall'età di Pericle a quella alto medievale è solo nella mente malata di coloro che non vivono senza un nemico.
E bene fa Galli della Loggia, nel suo editoriale odierno sul Corriere, a ricordare come in Italia siano ben pochi ( troppo pessimista se dico nessuno ? diciamo che io non saprei salvare nessuna categoria va, così la buttiamo sul soggettivo e magari tacitiamo quelli sempre pronti a lamentarsi per le generalizzazioni) quelli che possono respingere l'accusa se non di complicità, di co-responsabilità.
Fateci caso, è un gioco semplice : pensate alla VOSTRA situazione personale, magari se siete bravi estendendola alla vostra famiglia, poi alla categoria e/o corporazione   di cui fate parte e immaginate di riformare qualcosa, in modo da ridurre costi, eliminare sprechi, cose così. Fatto ? Non avete tagliato (in modo significativo, se no è barare) nulla  ? Siete italiani perfetti. 
Buona Lettura 

"Il peccato nazionale"


«Non è mica colpa nostra! È lui, sono loro (a piacere Berlusconi, Prodi, la Sinistra, la Destra) che hanno ridotto il Paese così». La grande maggioranza degli italiani è ormai consapevole della gravità della situazione in cui ci troviamo, avverte che a questo punto solo scelte coraggiose e magari anche impopolari, solo drastiche rotture rispetto al passato possono allontanarci da quel vero e proprio declino storico che altrimenti ci attende. Ma questa maggioranza è tenuta in ostaggio da quel grido lanciato di continuo dalla minoranza disinformata e settaria dell’opinione pubblica: «Non è colpa nostra! È colpa di altri». Un grido, un giudizio intimidatorio, che ha il solo effetto politico di dividere, di impedire quel minimo di accordo generale sulle responsabilità passate e perciò sulle decisioni audaci di cui c’è tanto disperato bisogno. Contribuendo così a rendere la soluzione della crisi ancora più lontana.
Invece bisogna convincersi — a destra come a sinistra — che non è «colpa loro». Della situazione drammatica in cui si trova l’Italia è colpa nostra, è colpa di tutti, sia pure, come si capisce, in grado diverso. La politica, i politici, per esempio, hanno certamente responsabilità primaria perché alla fine è la politica che decide. Ma in realtà la vera colpa della politica nel caso italiano è stata soprattutto quella di non avere alcun progetto, alcuna idea; e se l’aveva di non essere stata capace di realizzarla. Di non aver fatto. Per esempio di non essere stata in grado di opporsi alle richieste caotiche e spesso alle pretese (nonché ai vizi antichi) della società italiana. E quindi di aver scelto ogni volta la soluzione più facile e più demagogica: che naturalmente era quasi sempre anche la meno saggia e la più costosa per l’erario. L’Italia insomma è stata per un trentennio la scena di un grandioso concorso di colpe: tra i partiti e la politica da un lato, e dall’altro gli italiani e — elemento non meno importante — le élite economico-burocratiche che di fatto hanno anch’esse (eccome!) governato il Paese.
Oggi, insomma, paghiamo per errori e omissioni che rimontano indietro di decenni. La nostra crisi odierna viene da lontano. Viene dal consenso ricercato da tutti — sì da tutti, dalla Destra come dalla Sinistra — ricorrendo alla spesa pubblica. Viene da centinaia di migliaia di pensioni di invalidità elargite a chi non le meritava, e in genere da un sistema pensionistico che per anni ha consentito a decine e decine di migliaia di italiani di destra come di sinistra di andare in pensione con un’anzianità ridicola; viene da troppi lavori pubblici decisi da amministrazioni di ogni colore e costatati dieci volte il previsto; da troppi posti assegnati in base a una raccomandazione (solo agli elettori del Pdl? Solo a quelli del Pd?). Viene da troppi organici gonfiati per ragioni clientelari ad opera di tutte le pubbliche amministrazioni; da troppi investimenti sbagliati, rimandati o non fatti dagli imprenditori e dalla loro propensione a eludere le leggi; dalle troppe tasse evase da commercianti e professionisti (davvero tutti di destra o tutti di sinistra?); viene dalla troppa indulgenza usata nella scuola e nell’università, dall’aver accondisceso a tante illegalità specie se potevano (non importa con quale fondamento) invocare ragioni «sociali» (vedi le «occupazioni» di ogni specie); da una miriade infinita di piccoli abusi quotidianamente praticati e tollerati — per esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nella circolazione, nella raccolta dei rifiuti — che tutti insieme hanno rovinato e spesso reso invivibili le città e il paesaggio italiani.
Da tutto ciò viene la nostra crisi: da questo multiforme sfilacciamento del tessuto collettivo, da questa indifferenza al senso della realtà. Chiamarsene fuori facendo sfoggio di virtù e cercare un capro espiatorio nella parte politica che non ci piace testimonia solo di una cieca faziosità.
È quella stessa faziosità propria della minoranza settaria che tiene in ostaggio anche il discorso pubblico del Paese e si manifesta nell’irrefrenabile pulsione a trovare complici del male specialmente nella stampa: in chi scrive nel modo che essa non gradisce. Sempre rivolgendo la sua ossessiva domanda inquisitoria che suona: «Ma voi dove eravate quando A faceva questo?», «Che cosa avete scritto quando B diceva quest’altro?». Domande inquisitorie che naturalmente contengono già dentro di sé la risposta, dal momento che secondo questi accusatori — che credono di ricordare tutto e invece non ricordano nulla — la stampa che a loro non piace avrebbe sempre chiuso gli occhi, sempre taciuto, finto di non vedere, e suonato la grancassa in onore del Potere.
Se avesse senso verrebbe da rispondere: «Fuori le prove!». In realtà una tale accusa è solo il segno della superficialità disinformata e settaria, unita al moralismo aggressivo che ci hanno regalato gli anni della Seconda Repubblica. La superficialità e il moralismo che portano a credere che chi non si proclama preliminarmente contro vuol dire che allora è necessariamente a favore; che l’unico commento possibile a qualsiasi cosa che non piaccia debba essere la maledizione. Che rifiutano visceralmente l’idea che capire e analizzare è più importante — e soprattutto più utile al lettore — che non aizzare o capeggiare una tifoseria. Alla domanda «Dove eravate quando...?» la risposta dunque è: eravamo dalla parte di questa idea dell’informazione e del giornalismo. Di certo ve ne possono essere legittimamente, e ve ne sono, delle altre. Ma ancora più certo è che non sarà con le filippiche ossessive, con le caccie all’untore né con le autoassoluzioni a buon mercato, che l’Italia riuscirà a correggere i mille sbagli commessi. Che essa riuscirà a costruire quel minimo di accordo su quanto è realmente successo nel suo passato senza il quale non può esserci speranza alcuna di un futuro.

 
 

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