Cose ovvie, ma evidentemente non abbastanza, non qui, non in Italia, quelle scritte da Goffrebo Buccini, apprezzato inviato del Corriere della Sera ( una volta addirittura premiato come cronista dell'anno) il quale commenta l'iniziativa dello stressato (chi non lo sarebbe avendo avuto in Procura Ingroia e ancora oggi i suoi epigoni ??) procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Il capo della difficile Procura del capoluogo siciliano alla fine ha sentito la necessità di prendere carta e penna e distribuire ai suoi sostituti una sorta di vademecum del "buon magistrato", sperando, credo con poche possibilità di successo, che venga seguito.
Si tratta, come nota giustamente Buccini, di cose ovvie, o almeno lo sono state per decenni, e per una discreta parte di giudici e anche pm lo sono ancora, e dovrebbe lasciare interdetti il fatto che un alto dirigente abbia sentito invece il bisogno di ricordarle : niente esposizione di opinioni personali e orientamenti lato sensu ideologici; «garbato rifiuto» delle domande fuori tema in conferenza stampa; stop alle «denigrazioni enfatiche» di intere categorie sociali e, a maggior ragione, di singole persone, specie se questi singoli sono parte del processo.
Nel ricordare come si sia perso il senso della funzione, del ruolo che si esercita, e che l'imparzialità è imprescindibile caratteristica del magistrato che deve risultare anche EVIDENTE, Baccini fa efficacemente l'esempio di un arbitro che scenda in campo con al collo la sciarpa della sua squadra del cuore...
Paradosso, certo, ma utile per spiegare cosa si contesta.
Buona Lettura
"Pm e politica, un decalogo non basta"
Almeno due chiavi di lettura sembrano possibili nell’ultimo capitolo dei tormentati rapporti tra i pubblici ministeri palermitani. Il procuratore Francesco Messineo — narrano le cronache — avrebbe stilato una sorta di decalogo per chiudere, come si usa dire, «la stagione delle polemiche»: stagione che, in tempi recenti, ha attraversato i suoi giorni più caldi a causa del fervore esternatorio di Antonio Ingroia, prima che l’aggiunto di Messineo si dedicasse del tutto — senza gran fortuna — alla sua vera passione, la lotta politica; ma che ha vissuto ora una recrudescenza nella sortita di un altro pm, Vittorio Teresi, contro i giudici del processo al generale Mori, «rei» di avere smontato le tesi d’accusa sulla trattativa Stato-mafia. Messineo starebbe insomma imponendo ai colleghi alcune regole di continenza nelle dichiarazioni pubbliche, battendo così il pugno sul tavolo dopo avere mostrato forse troppi timori e troppe indecisioni in passato. E, naturalmente, la prima chiave di lettura sta proprio qui: perché il procuratore, a lungo contestato da molti dei suoi sostituti, a giugno era stato messo sotto tiro pure dal Csm che gli imputava «carenza di coordinamento»(persino nella mancata cattura del boss Messina Denaro) e soggezione proprio verso Ingroia, già uomo forte del palazzaccio palermitano; ed è stato, sì, «assolto» a settembre, ma con un rimprovero — non riuscire a tenere unita la Procura — che gli peserà sulla carriera al momento di cambiare sede. Dunque, la voce grossa, pur con Ingroia ormai lontano (ma con i suoi più fedeli colleghi sempre attivissimi), può apparire infine una strategia d’immagine, una tattica di autotutela, se non è l’ultima ratio per evitare la deriva del tutti contro tutti. Tuttavia c’è una seconda chiave di lettura che, nella sua semplicità, può portarci magari un po’ più lontano. Esaminiamo in sintesi le raccomandazioni di Messineo ai pm: niente esposizione di opinioni personali e orientamenti lato sensu ideologici; «garbato rifiuto» delle domande fuori tema in conferenza stampa; stop alle «denigrazioni enfatiche» di intere categorie sociali e, a maggior ragione, di singole persone, specie se questi singoli sono parte del processo. Ammettiamolo: in un Paese civile, queste sarebbero assolute ovvietà. E ci permettiamo di dissentire da quei nostri colleghi preoccupati del «bavaglio» ai magistrati, perché, a nostro avviso, qui non di questo si tratta, ma di puro e semplice ripristino del buonsenso e della responsabilità legati a un ruolo. L’articolo 21 della Costituzione, che tutela il diritto di tutti — magistrati inclusi — a manifestare le proprie opinioni, difficilmente poteva prevedere atteggiamenti gladiatori, divismo e invasioni di campo tra chi, meritoriamente, indossa la toga in nome del popolo italiano. Soprattutto per un motivo, diciamo, metagiuridico: perché, quando fu scritto, era ancora radicato in Italia il senso dell’opportunità, quella sottile linea di confine che separa ciò che non è illecito da ciò che pur tuttavia non è il caso di fare, in quanto mal s’attaglia a una funzione, a una dignità. Tra tante critiche diffamatorie e interessate mosse agli anni di Mani pulite ve n’è almeno una che ha senso: quel periodo, per effetto di una perenne visione emergenziale, ha segnato un mutamento nella cultura diffusa della magistratura, da Milano a Palermo. La sovraesposizione può giocare brutti tiri anche ai migliori: e questo accadde senza dubbio al pool milanese. Il manicheismo e le barricate degli anni successivi hanno poi prodotto i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. I magistrati hanno ragione quando chiedono alle parti in causa di non prendersela con l’arbitro. Ma se alcuni arbitri mettono al collo la sciarpa di una squadra, non possono lamentarsi se vengono risucchiati dalla bolgia dello stadio. Il magistrato non deve solo essere terzo, deve anche apparirlo . Dunque non ci sarà mai riforma della magistratura efficace quanto un recupero del senso dell’opportunità. Che a ricordarcelo sia un decalogo scritto da un procuratore traballante è solo l’ennesimo, triste paradosso della giustizia: temiamo non l’ultimo.
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