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lunedì 25 novembre 2013

QUANDO I GIUDICI DIVENTANO (MEDIOCRI) SCRITTORI, LIBERI DI INGIURIARE I CITTADINI

 

Sul carattere miserabile di certi passaggi (sono prudente...) della motivazione della sentenza Ruby, ho già scritto, sposando e plaudendo il commento di Giuseppe Caldarola, un "comunista" che inorridisce a questi metodi...
Consiglio di leggere il post http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/11/il-modo-miserabile-di-motivare-una.html .

Il problema però è ampio, diffuso anche laddove la politica non c'entra (anche se, in questo caso, il moralismo da due soldi ha modo di esaltarsi...) e lo ritroviamo sempre più spesso nelle motivazioni di sentenze "qualunque". 
Tra l'altro, alla improvvisa vena letteraria (etico moraleggiante) dei magistrati non si accompagna, per lo più, un'adeguata abilità per la bisogna, e non sono il solo a pensarlo. Anche un loro collega (ex) , Gianrico Carofiglio, che oggi fa lo scrittore - lui sì - a tempo pieno e che tiene anche corsi di scrittura specie di carattere giuridico, rilevava che i più restii a imparare a "scrivere" erano proprio i magistrati, presuntuosamente convinti di non averne bisogno. Presunzione infondata, chiosava l'autore dell'avv. Guerrieri, e c'è da credergli. 
Il problema è affrontato con efficacia e vigore da Davide Giacalone, e siccome mi trovo a condividere ogni parola del suo intervento, mi limito ad augurarvi
Buona Lettura

Contro il motivazionismo

Bisogna fermare la letteratura giudiziaria. Non è il primo problema della giustizia italiana, la peggiore del mondo civilizzato, la più lenta, la più arrogante, la più capace di tenere in galera innocenti e di togliere diritti anziché tutelarli. Eppure la letteratura delle motivazioni, il socioluogocomunsimo delle sentenze, il moralismo delle argomentazioni, addirittura i viaggi nell’animo umano, sono il segno di un terrificante imbastardimento culturale. Chi scrive certe cose pensa d’essere il giudice supremo, non la toga che applica il diritto. E se i tanti magistrati che fanno con correttezza il loro lavoro riescono, in qualche modo, a evitare che il treno giudiziario deragli del tutto, nessuno di loro è in grado di fermare l’effetto devastante di un degenere filone letterario: il motivazionismo.
Leggete quel che si trova scritto in un atto, destinato all’applicazione degli arresti domiciliari, nel mentre il cittadino (costituzionalmente innocente) si trova ancora in galera: “ha iniziato a prendere coscienza dei danni causati e, nonostante l’inizio di tale percorso di ripensamento della propria condotta non sia ancora approdato ad una conclamata resipiscenza …”. Ma chi crede di essere, l’estensore di queste righe? Forse avrebbero potuto prenderlo alla santa inquisizione, benché lì la selezione fosse più severa e si richiedeva anche maggiore proprietà di linguaggio. Nessuna sentenza, mai, può porsi il tema della “conclamata resipiscienza”. Questo caso (molto noto, ma è del tutto ininfluente il cittadino cui si riferisce) non è affatto isolato, dilagando l’abitudine di mettere nelle motivazioni degli atti considerazioni del tutto estranee al mondo della legge e del diritto.
Conosco l’obiezione polemica: allora aboliamo le motivazioni, previste dalla Costituzione. L’idea che non solo le sentenze, ma tutti gli atti giudiziari e tutti i provvedimenti limitativi di quale che sia libertà personale, debbano essere “motivati” ha un senso preciso: non possono essere arbitrari. Motivare significa esplicitare in base a quale legge si ritiene di procedere in quel modo. Tanto che, nella Costituzione, lo si prevede quale premessa del possibile ricorso avverso il provvedimento: tu mi dici in base a quel circostanza e legge mi sequestri dei beni, o mi apri la posta e io ricorro spiegando perché ti sei sbagliato e sto subendo un’ingiustizia. La Costituzione (articolo 111) prevede anche che siano motivate le sentenze. In altri sistemi questo non è necessario. Negli Usa, ad esempio, è escluso: colpevole o innocente. Punto. E’ la logica conseguenza dell’accusatorio puro (il nostro è bastardo assai). Anche in questo caso, però, l’obbligo di motivare si lega al diritto di ricorrere. Della serie: ti abbiamo considerato colpevole di omicidio perché il morto è stato ammazzato a coltellate e sul coltello c’erano le impronte della tua mano destra. Ricorso: i giudici hanno preso un granchio, perché sono monco della mano destra. Serve a questo e così devono essere scritte.
Invece si scorrazza, per centinaia di pagine, nel sociologismo per nullatenenti culturali, nel psicologismo per freudiani affetti da turbe della personalità, nell’intimismo sentimentale per anoressici che mai divorerebbero un codice. E queste pagine di ridicola drammaturgia finiscono poi nelle mani di un’altra categoria ove l’analfabetismo è preludio di compitazione: i giornalisti. Da qui parte il rimbalzo del copia e incolla, non a caso due attività manuali. E gli stessi cui mai un editore avrebbe pubblicato le stucchevoli poesie (se non a spese del poeta togato), si ritrovano sulle prime pagine, in un lirico delirio d’onnipotenza. Da qui svolgono il più diseducativo dei ruoli: fulgido esempio per i colleghi.
Questa roba va stroncata. Le motivazioni sono funzionali all’atto giudiziario e alle sentenze, servendo a tutela del cittadino che ne è colpito, talché possa ricorrere e vederli annullati. Non sono un modo per portare al rogo la sua presunta personalità, i suoi pensieri, i suoi desideri. Il rimedio sarebbe dovuta essere la cassazione. Basta leggerne molti atti per rendersi conto che i presunti medici sono portatori del medesimo morbo. Alla fine è proprio la Costituzione a uscirne massacrata: gli atti non sono solo arbitrari, ma già che ci sono divengono anche offensivi. Questa roba va stroncata.

3 commenti:

  1. RICCADO CATTARINI

    Condivido parola per parola il sempre brillante Stefano Turchetti, e allo stesso modo condivido l'articolo di Giacalone che riporta. Le sentenza servono a spiegare perché un tale è stato ritenuto colpevole o innocente. Non a propinarci valutazioni etiche un po' d'accatto o moralismi da bar di paese. Anche perché così si sconfina nella colpa d'autore, quella sottospecie di giudizio nel quale si viene giudicati non per quello che si è, o naturalmente non è, fatto, ma per quello che si è. Pericolosissimo.

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  2. ...Chi si erge ogni giorno a Paladino della Giustizia "flirta" col diavolo..... Il risultato oggi, a parer mio, é che il diavolo non riesce più a star dietro a tutti sti paladini !! Ma un distnguo bisogna sempre farlo, c'é anche chi svolge il proprio lavoro seriamente, senza "dover arrotondare" il fine mese facendo lo scrittore ....

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    1. Condivido il pensiero del lettore (ma perché non firmarsi ? più carino no ? anche solo col nome) e ne apprezzo anche la forma. Ed è anche giusto ripetere, almeno ogni tanto, che ancora una buona parte dei giudici (non saprei più dire se la maggioranza o una foltissima minoranza) "svolge il proprio lavoro seriamente".

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