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domenica 25 maggio 2014

LEADER NAZIONALI PER LE EUROPEE :VINCONO O PERDONO SE....L'ASTICELLA ELETTORALE



Pierluigi Battista sul Corriere di oggi traccia il profile dei leader italiani in attesa del voto odierno, indicando aspettative e timori di ciascuno di loro. Condivido in massima parte le considerazioni, inevitabilmente sintetiche - un po' come le pagelle dei calciatori - fatte dal direttore, ossevando però che è riduttivo far coincidere la lista di Scelta europea con quelli di Scelta Civica, i sopravvissuti montiani (nemmeno più Monti lotta insieme a loro). Intanto, nella lista c'è la presenza di quelli di FARE (per fermare il declino), la cui connaturazione non è né centrista né precipuamente moderata quanto "liberale". Inoltre, l'endorsement della Lista per Guy Vorofhstadt quale futuro presidente della commissione europea è un'altro elemento a favore della vocazione liberale del gruppo e così si è anche esplicitamente espressa la Giannini, in una intervista al Corriere della sera di qualche giorno fa. Insomma, non raggiungeranno il 4%, però si propongono come gruppo di ispirazione liberale e non centrista. 

Personalmente, mi auguro che Renzi arrivi davanti a Grillo ma non raggiunga il 33% di Veltroni, che il Lingotto aveva una narrazione migliore del post Leopolda, che Berlusconi tenga, che Alfano non sia premiato. Mi piacerebbe che la Meloni ce la facesse, e invece no quelli di Tsipras.
Se Grillo, come sembra, ripeterà l'exploit del febbraio 2013, ci sarà la conferma che il Movimento è LUI, esattamente come quando si diceva che Forza Italia era Berlusconi. Ma ancora di più, che nel centro destra qualche signore acchiappa voti, specie nel sud, c'è sempre stato, mentre tra gli ortotteri l'unico catalizzatore è lui, il comico genovese.  Se lo ricordassero tutti quando si parlerà di dialettica critica interna al Movimento : tutta gente che se sta oggi nel parlamento italiano e domani in quello europeo lo deve solo e soltanto alla fascinazione esercitata da Grillo sugli arrabbiati italici. 

Il Corriere della Sera - Digital Edition

LA SFIDA 

RENZI

Il voto deve dare una forte legittimazione elettorale all’irresistibile ascesa dell’attuale premier, dopo la spietata defenestrazione di Enrico Letta. Non sarà difficile «schiodare» il suo partito dallo striminzito 25% ottenuto nelle elezioni di un anno fa a guida Bersani. Ma l’unico risultato veramente e inequivocabilmente positivo può essere il raggiungimento di una distanza numerica molto netta con Grillo, per dimostrare che il «nuovo» Pd è in grado di bloccare l’emorragia verso i Cinque Stelle. Renzi è partito a velocità supersonica e l’inizio di una campagna elettorale brillante ha coinciso con una conferenza stampa tambureggiante di slide e 80 euro in busta paga. Negli ultimi giorni, Renzi sembra invece essersi avviato all’inseguimento dell’insultante rivale. Bloccarsi al 30%, risultato eccellente in sé, non garantirebbe la tenuta del governo. 
E del partito che, oggi silente a apparentemente disciplinato, ricomincerebbe a mormorare e a rumoreggiare.

GRILLO

Vince se non perde nemmeno una frazione di un punto in percentuale. Stravince se va ancora più avanti rispetto alla marcia trionfale di un anno fa. Può dimostrare che la sua mobilitazione è impressionante, implacabile e che i flop nelle elezioni amministrative sono solo il riflesso di una legge da cui non si sfugge: il Movimento 5 Stelle si identifica pienamente con il suo leader supremo e vince solo quando Grillo si presenta nelle piazze. È stato lui a rendere incandescente la campagna, a lanciare accuse roventi, e promettere sfracelli in caso di vittoria. Si è ben guardato dal dire in cosa consisterebbe esattamente la vittoria, lasciando il «vinciamo noi» sufficientemente generico per non ricevere smentite. Se la distanza con Renzi sarà minima, si aprirà per il Movimento una stagione elettorale decisiva in cui l’obiettivo non potrà più essere l’invio di una pur nutritissima pattuglia in Parlamento. Le aspettative troppo alte generano, se non rispettate nei fatti, delusioni altrettanto cocenti 

BERLUSCONI

Ottenere un risultato sui livelli delle elezioni scorse sarebbe per Berlusconi la realizzazione di un miracolo. Per la prima volta in vent’anni, Berlusconi non ha fatto una campagna elettorale napoleonica, che è la sua specialità, mestamente riconosciuta anche dai suoi più veementi nemici. Per la prima volta non è stato lui a dettare «l’agenda» dello scontro elettorale, costringendo i suoi avversari a seguirlo, a inseguirlo, a cercare di imitarlo. Per la prima volta è apparso in difesa titubante (Renzi o non Renzi?), impegnato a frenare l’esodo del voto di centrodestra verso gli approdi grillini. Non è stata solo colpa delle sue disavventure elettorali, ma dell’appannamento di una leadership che nel giro di qualche anno ha portato il partito da un oceanico 38% allo striminzito 20 delle previsioni. Un risultato catastrofico porterebbe Berlusconi a riconsiderare il suo patto con Renzi, con conseguenze inevitabili sulla tenuta parlamentare del governo. La speranza di Berlusconi è che a guadagnare dai suoi guai possa essere il «traditore» Alfano.

ALFANO 

O quorum o disastro. Sotto il fatidico 4 per cento, il destino del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano è destinato a essere quello dell’irrilevanza. Sopra, la possibilità di giocare un ruolo importante nel tentativo di rifondare un centrodestra attualmente tagliato fuori dal nuovo bipolarismo Renzi-Grillo. Una sconfitta elettorale significherebbe per il ministro dell’Interno la certezza che il suo partito non è riuscito nemmeno a scalfire il predominio berlusconiano e che la sua scelta di stare nei governi a guida pd è stata vissuta dall’elettorato di centrodestra come un cedimento «ministerialista», nel ruolo di irrilevante ruota di scorta di Matteo Renzi in questo caso. Se Alfano non riuscirà a intercettare una parte significativa degli elettori di Berlusconi, l’operazione che ha preso avvio nell’ottobre scorso si dimostrerebbe fallimentare. E così la prospettiva di una torsione in senso «moderato» di una coalizione succube del massimalismo estremista.


SALVINI

Dalla sua, il segretario della Lega, ha la certezza che peggio di come è andata sinora non può andare, e che si può soltanto risalire dal baratro. Bisogna però intendersi sull’entità numerica di questo «meglio». La rincorsa di Marine Le Pen non può nascondere il fatto che tra il Front National francese e la Lega corrono, stando ai sondaggi, molti punti percentuali di differenza. E se per la Le Pen un risultato a due cifre è scontato, per la Lega di Salvini un forte messaggio anti euro e una reiterata campagna contro l’immigrazione devono necessariamente ottenere un ascolto di rilievo. Altrimenti, il mero oltrepassamento della soglia del 4 per cento resterebbe una voce flebile nel grande mare eurofobo del voto grillino. Salvini deve remare controcorrente per fugare la percezione diffusa che la Lega si sia con il tempo incorporata al sistema della corruzione, per colpa delle nefandezze del «cerchio magico». Difficile farsi passare per nuovi, ma è il senso della battaglia disperata di Salvini.


MELONI

Un volto nuovo per un simbolo antico. La battaglia per inserire le insegne della fu Alleanza nazionale nel simbolo dei Fratelli d’Italia è essenziale per calamitare un elettorato di destra traumatizzato dalla mancata fusione con il partito berlusconiano. Il guaio per il movimento di Giorgia Meloni è che per dare un segno forte di identità e di differenziazione con Forza Italia bisogna cercare di farsi largo nell’area già parecchio affollata degli eurofobi e degli euroscettici, occupata massicciamente dal Movimento Cinque Stelle di Grillo e dalla Lega. Dalla sua, il partito della Meloni ha la possibilità di non giocare la partita alla morte per il raggiungimento del quorum: anche un risultato leggermente inferiore, sebbene senza rappresentanza a Strasburgo, potrebbe consentire agli ex An di giocare una partita nei prossimi mesi. Ma deve essere «leggermente inferiore», non troppo, altrimenti la sua appetibilità di alleato verrebbe meno. Sotto il 3, la sconfitta

VENDOLA

Ex astro nascente della politica italiana, Vendola subisce un certo oscuramento della «narrazione» di cui è stato facondo protagonista negli anni scorsi. Se la trasformazione- redenzione nella lista che si intitola al leader greco Tsipras non riuscirà ad oltrepassare la soglia di sbarramento, si avrebbe, dopo una quindicina di mesi, la conferma di uno svanimento pressoché definitivo della sinistra «radicale» così come l’abbiamo conosciuta dal crollo del muro di Berlino e dalla fine del Pci in poi. La cannibalizzazione dell’elettorato anti-moderato da parte del movimento di Grillo si dimostrerebbe molto più solida e preoccupante di un effimero travaso di voti in libera uscita. Influisce anche la quasi certezza che in caso di elezioni politiche Sel, il partito di Vendola, potrebbe entrare in una coalizione guidata da Matteo Renzi. Il tentativo è almeno quello di condizionare a sinistra l’alleanza con il Pd da parte dei settori piddini più insofferenti al verbo renziano. Altrimenti, tornerebbe l’incubo della scomparsa

GIANNINI

L’area elettorale in senso lato «centrista» rischia di apparire il frutto di un’èra geologica politica passata, anche se molto recente. Il non brillante risultato delle elezioni politiche non ha giovato alla solidità di un progetto che aveva in Mario Monti il suo pilastro. E l’irruzione di Matteo Renzi ha molto eroso uno spazio che aveva un senso più spiccato in presenza di un Pd spostato a sinistra con la direzione di Pier Luigi Bersani. Oggi l’impresa di raggiungere il quorum per poter accedere a Strasburgo appare quasi proibitiva, anche se Stefania Giannini, importante ministro della compagine governativa presieduta 
da Renzi, ha più volte tentato di marcare una differenza con l’«ortodossia» giovanilista del governo. Oggi, per colpa anche 
di una campagna elettorale dominata dall’intemperanza, il messaggio moderato del movimento montiano appare molto più debole che in passato. Senza un’affermazione decisa, per i centristi si aprirà una fase molto tormentata di riflessione.

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