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sabato 1 novembre 2014

ANCHE PER SOFRI DIETRO LA TESI DELLA TRATTATIVA C'E' LA MALAFEDE DI TROPPI



Nel giorno in cui i quotidiani riportano ampi stralci delle dichiarazioni rese dal Presidente Napolitano in sede di testimonianza nel, tristemente celeberrimo, processo sulla presunta trattativa avvenuta tra Stato e Mafia più di 20 anni fa (!?!?), dopo aver dato spazio all'acuto sarcasmo di Filippo Facci  (potete leggere i post  http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/11/i-sostenitori-della-trattativa-stato.htmlhttp://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/10/facci-e-linutile-testimonianza-di.html   ), qui è il turno di un altro genere di scrittore, Adriano Sofri, che apprezzo molto, e che se si discosta nella forma, non lo fa nella sostanza.
La sensazione è che alcuni soggetti, orfani del nemico di sempre, che inutile ricordare chi fosse, hanno trovato un'altra greppia sulla quale campare. 
Buona Lettura


Proverò anch'io a tirare le somme dell'affare Napolitano, per così dire. Ho sorriso dei titoli di ieri che annunciavano come Napolitano avesse rivelato che le bombe della mafia intendevano "ricattare" lo Stato (lui non ha detto ricattare, credo, ma il concetto è quello). Non conosco nessuno che non sapesse, e comunque non potesse tranquillamente dedurre, che le bombe della mafia intendessero spaventare e ricattare lo Stato e l'intera società italiana. Però Napolitano andava sentito, dicono, a proposito di frasi, anzi parole, contenute in una lettera di Loris D'Ambrosio. Quelle parole ebbero probabilmente per Napolitano lo stesso significato che ebbero per D'Ambrosio, e che hanno per un lettore imparziale e preoccupato. D'Ambrosio non ritenne che potessero fare oggetto di una denuncia, e tanto meno lo ritenne Napolitano. Però Napolitano, si aggiunge, non volle rendere noto il contenuto di sue private conversazioni telefoniche, che peraltro non avevano agli occhi dei magistrati alcuna pertinenza con indagini. Cioé si addebita a Napolitano di aver difeso il diritto, non del capo dello Stato, ma di ogni cittadino della terra, di tener riservate le proprie private conversazioni. Il cielo ci scampi dalla pubblicazione delle private conversazioni di compiaciuti denigratori di Napolitano, se le loro pubbliche parole sono già così miserabili. Infine, Napolitano ha preferito escludere stampa e telecamere dall'udienza al Quirinale: io non l'avrei fatto. Ma alla luce del risultato, la tesi che Napolitano abbia voluto escludere di fare un piccante spettacolo di un episodio così grave prevale senz'altro sul sospetto che temesse di perdere la faccia e volesse dissimulare le sue reticenze. L'episodio così grave non è, né potrebbe mai essere, la deposizione di un presidente della repubblica in qualità di testimone in qualunque processo, ma il suo avvenimento dopo una lunga e spregiudicata campagna che l'ha trasformato agli occhi di una vasta parte di opinione, disinformata, esterrefatta o risentita, in poco meno che un complice nelle stragi di mafia. A questa campagna hanno dato mano persone in buona fede e persone in malissima fede. Bene. In capo a tutto ciò, Napolitano ha fatto ciò che è necessario aspettarsi da un cittadino chiamato, ragionevolmente o no, a testimoniare in una sede di giustizia. Ha reso definitivamente affidabile la rivendicazione di aver agito in questa vicissitudine, compreso il ricorso costituzionale, in difesa non di se stesso come persona ma delle prerogative della propria carica, dunque anche di chi gli succederà. E, risultato minore ma istruttivo, ha eccitato nei commenti dell'indomani la livida piccineria dei suoi detrattori, ai quali, nonostante tutto, dipingere il presidente della repubblica come un omertoso signore dal passato indicibile piace molto più del contrario: anche perché il contrario è il ritratto della loro avida meschinità.

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