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venerdì 5 dicembre 2014

IL SISTEMA DELLA PESCA A STRASCICO APPLICATO ALLA GIUSTIZIA

 

Chi legge il Camerlengo sa che faccio l'avvocato, civilista. Quando qualche persona si rivolge a me per problemi che possono avere rilevanza penale, lo accompagno dal mio Maestro, l'avv. Domenico Battista, e al massimo lo chioccio, ma la difesa è dello specialista. 
Del resto le persone che hanno fiducia in te pensano che tu sceglierai la cosa migliore per loro, e questo può significare anche che non sarai tu ad assisterli tecnicamente. In questi casi, se sono clienti datati, desiderano che comunque tu resti come codifensore; in realtà sei solo una figura di conforto e, al massimo, di "traduzione" ("avvoca', io non ho capito bene quello che ha detto il suo collega, me lo spiega in parole più povere?..." ).
Uno degli episodi belli di una carriera che ormai si fa lunghetta (ma veglierò perché non diventi lunghissima : non ci tengo) si verificò proprio in occasione dell'arresto di un mio cliente, un imprenditore edile, coinvolto in una retata simile per dimensione e rumorosità sui media a quella di questi giorni. Allora non c'erano politici di mezzo, ma Enrico Nicoletti, il "banchiere" e contabile della banda della Magliana, che a Roma fa sempre notizia. 
Al momento dell'arresto questo cliente, che chiameremo Osvaldo, alla domanda del maresciallo della GdF che gli chiedeva se voleva indicare un difensore di fiducia  rispose dandogli il mio nome.
La moglie e il figlio presenti, gli obiettarono che io ero un civilista, e nel sentire questa cosa anche il maresciallo osservò che la vicenda era grave e richiedeva uno specialista penale.
Osvaldo non cambiò idea e all'insistenza dei familiari replicò bruscamente, com'era peraltro tipico nell'indole del personaggio, intimando loro : "avvertite Turchetti cazzo, lui saprà cosa fare". 
Ad abundantiam, aggiungo che Osvaldo era uno che diversificava il rischio nelle sue cose, e anche con gli avvocati, tendeva ad averne più dì uno. In questa "squadra", c'era naturalmente anche un collega che faceva penale...
Ebbene, lui scelse me, ben sapendo che nemmeno per un momento io avrei pensato di condurre questa vicenda direttamente, e fidandosi che però l'avrei presa a cuore, procurandogli il difensore giusto e restandogli vicino.
Si fece un mese di custodia cautelare a Velletri ( l'avvocato da me scelto fu il primo, in un esercito di una trentina di detenuti per la stessa vicenda, a ottenere gli arresti domiciliari), e io conobbi la non brillante esperienza dei colloqui in carcere (dove andavo appunto per supporto morale, oltre che per i pochi aggiornamenti su quanto si stava facendo per fargli riottenere la libertà). Se ci penso, ancora me la ricordo la sensazione brutta del rumore delle sbarre che si chiudono alle tue spalle...
Tutto questo ricordo  per esprimere, en passant, la mia convinzione che l'idea di poter fare civile e penale insieme era velleitaria anche 30 anni fa, figuriamoci oggi dove la società e la legislazione si sono così complicate. Credo anzi che, come nella medicina, anche in campo legale le specializzazioni vadano pretese e quindi regolamentate a tutela dei clienti. Come la salute, anche i diritti sono bene delicato e prezioso, e non si può lasciare solo al "mercato", come vorrebbero certi amici (veri, non è ironia) iperliberisti, la selezione degli avvocati capaci da quelli no.
Ma la memoria dell'episodio raccontato mi serve anche per introdurre il bell'articolo di Tiziana Maiolo che ieri, su Il Garantista, spiegava bene qualcosa che avevo anticipato (esperienza di osservatore attento nel tempo), come concreta possibilità alla notizia della retata degli indagati nell'affaire della cd. Mafia Romana : l' imputazione del 416 bis sembra una forzatura, che alla lunga potrebbe rivelarsi un autogol. 
Proprio di recente abbiamo visto gli effetti nefasti di un'accusa sbagliata (caso Eternit). 
Non solo, ma statisticamente i maxi processi portano a un numero di prosciolgimenti e assoluzioni imbarazzanti : la metà e oltre degli imputati. Ora, questo sistema della pesca a strascico, che mi sembra ormai proibito anche per i pesci (almeno sottocosta), a maggior ragione dovrebbe non essere concepibile per le persone.
Buona Lettura


Il Garantista

L’autogol dell’accusa di mafia

a. carimnati

Se il procuratore capo di Roma Pignatone voleva presentare un’inchiesta suicida come quella annunciata martedi con le trombe delle grandi occasioni, ha trovato il sistema giusto. Quello, già bocciato dalle statistiche della storia giudiziaria italiana, di fare un maxiprocesso, oltre a tutto aggravato da quella contestazione del 416-bis del codice penale.
Il 416 bis è l’articolo che prevede l’associazione mafiosa: come se improvvisamente Roma fosse disseminata di cadaveri stesi a suon di lupara.
Qual è il limite del maxiprocesso? Quello di infilare centinaia di persone nello stesso frullatore, possibilmente con qualche politico che dia visibilità all’inchiesta, depositare in edicola un po’ di intercettazioni e aspettare i titoloni del giorno dopo. La storia di questi maxiprocessi ci dice però che un paio di anni dopo, alla prima verifica dibattimentale, almeno metà delle persone finite nella retata sarà assolta.
Che cosa ci dicono oggi gli inquirenti? Che un gruppo di affaristi, che si chiamano er pirata, er cecato,  porcone, maialotto, ‘o curto, er caccola, er cane, er bojo, ‘a forfora, er mijardario e uno cui piaceva farsi chiamare “il re di Roma”, avrebbero costruito una cupola mafiosa e messo le mani sul Campidoglio. E’ una cupola mafiosa, dice il procuratore Pignatone (che forse cerca di importare a Roma le inchieste palermitane), ma un po’ diversa, forse mafiosetta, sicuramente romana. Quindi contestiamo l’articolo 416-bis del codice penale. E questa sarà la prima accusa a cadere in dibattimento, se non prima. Perché questa norma, entrata trionfalmente ad affiancare l’originalità tutta italiana dei reati associativi dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa, è molto chiara, e parla di “forza di intimidazione”, “condizione di assoggettamento” e di “omertà”, cioè di comportamenti tipici delle imprese mafiose e del loro controllo del territorio nelle zone in cui sono storicamente radicate.
Ora, che il gruppo di affaristi guidati da uno che riteneva di essere il nuovo “re di Roma (che ne avrà combinate di tutti i colori, ma poi da fatti specifici gravissimi è stato sempre assolto) sia paragonabile alla violenza stragista di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta o camorra o sacra corona unita, è un fatto che fa torto all’intelligenza dei magistrati che conducono l’inchiesta e dei giornalisti che al fatto hanno riservato i propri godimenti, il proprio entusiasmo. C’è a Roma un gruppo di affaristi e faccendieri che commettono reati, truccano appalti, corrompono pubblici funzionari? Benissimo, si proceda con severità nei loro confronti e li si porti a processo.


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