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mercoledì 27 maggio 2015

"GLI APPASSIONATI DI CICLISMO? ALTRA COSA. " DEDICATO AI TIFOSI DI CALCIO

 

Gianni Clerici è stato un onesto tennista e un grandissimo narratore dei "gesti bianchi", titolo di un libro storico sul suo sport prediletto, appunto il Tennis, da me ammirato per lo stile, l'ironia, l'arguzia della scrittura ma anche della cronaca televisiva.
Per anni ha fatto coppia con il bravissimo Rino Tommasi nel commentare i grandi tornei di tennis quando la RAI li trasmetteva. Nulla, veramente nulla a che vedere con gli altri cronisti, di ieri e di oggi (ricordo Galeazzi, simpatico ma carente), incapaci di andare oltre alla semplice rappresentazione di ciò che il telespettatore già vede da solo ! 
Loro no, erano capaci sia di descrive la difficoltà del singolo gesto tecnico, che di fornire la lettura tattica della partita. 
Gianni Clerici era anche solito sottolineare la differenza abissale tra gli spettatori di tennis e quelli di calcio. Dunque, secondo il galateo tennistico, NON si applaude l'errore dell'avversario, lo si fa per un suo bel punto e alla fine del match anche se ha prevalso sul proprio beniamino.
Ve lo immaginate in uno stadio ??
Ora, è anche vero che Clerici Image result for GIANNI CLERICIdovette constatare che queste regole, centenarie, furono incrinate, indovinate dove ? Ma a ROMA naturalmente !! Accadde negli anni  '70 del secolo scorso, con l'avvento del grande Adriano Panatta che iniziò a lottare per la vittoria finale nel torneo di casa, gli Internazionali del Foro Italico, che divenne un anfiteatro romano simil Colosseo. Altro che non applaudire l'errore dell'avversario ! ! I doppi falli venivano salutati con un boato !! E non parliamo degli errori dell'arbitro o dei giudici di linea, veri o presunti che fossero...
Una bolgia, di cui il grande giornalista si scandalizzò tanto, biasimandola ferocemente e inutilmente. 
Dopo Panatta, non abbiamo più avuto campioni (alcuni bravi, ma grandi no) e la situazione si è normalizzata. 
Mi è venuto in mente Clerici e i suoi paragoni sulla diversità antropologica - con le eccezioni citate...- tra gli appassionati dei due sport leggendo una comparazione simile presente oggi sul Corsera a proposito delle migliaia e migliaia di italiani che ancora - nonostante tutti gli scandali sul doping (i tifosi per favore muti, che loro hanno il loro bel da fare con le scommesse, senza contare che gli esami antidoping nel calcio sono meno severi rispetto a quelli delle due ruote) seguono con passione il Giro d'Italia. 
Il Giro è il protagonista per questa gente, più ancora che il singolo corridore, e gli applausi sono per tutti, campioni e gregari, italiani o stranieri, di cui si riconosce la bravura o anche solo lo sforzo.
Qualche scemo poi capita anche lì, ma sono veramente una minoranza sparuta. L'ansia da prestazione, il dover vincere a tutti i costi, ha corrotto molti dei professionisti di questo nobile sport, ma non i suoi tifosi.
Ecco, possiamo dire che i ciclisti oggi non meritano i loro appassionati, decisamente migliori dei primi, mentre nel calcio c'è un'ottima corrispondenza tra i due soggetti (calciatori e tifosi).




Nel cuore del Giro la festa spontanea di amore
e passione che unisce l’Italia 
 Paolo di Stefano
 
 
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI APRICA Nessuno può avere idea di che spettacolo sia il Giro per gli italiani. Nessuno può saperlo se si accontenta di guardarlo in televisione. Bisogna mettersi in auto, in pullman o in bicicletta e fermarsi sulle strade, nelle piazze, in vetta. Basta una tappa.
«Il Giro unisce», dice la quarantenne Gaudenzia, venuta su in mattinata da Bormio con la sua bicicletta, 120 chilometri andata e ritorno dentro una tuta bianchissima, per godersi la tappa del Mortirolo. Ha ragione.

 Non so quante feste popolari in Italia riescano a chiamare tanta gente diversa. Gente pacifica e allegra. Non ci sono avversari, nessun antagonismo, non esiste il tifo contro. Locale e globale, transgenerazionale, trasversale, gentile, ecumenico. Che vinca uno spagnolo, un australiano, un ceco o un sardo, non importa. O meglio, importa, ma non cambia (quasi) nulla. Chiunque si veda arrancare sui pedali, l’applauso è assicurato. Il ciclismo non è il calcio, non conosce la violenza delle curve; qui le curve e i tornanti sono esplosioni: di urla, di salti, di gioia, di bandiere, di colori, di «olé!», di «forza!» e di altri punti esclamativi.
Non manca il folclore delle corna sulla testa, delle maschere, delle facce colorate, degli scalmanati in mutande che inseguono i corridori sotto la pioggia, dei disturbatori con selfie al traguardo, ma niente di più. Qualche imbecille in mezzo a una massa educata e festante. Ben altro che le mandrie lugubri dei furiosi da stadio. Padre Agostino, che a Lecco gestisce la Casa don Guanella, un centro d’accoglienza per giovani in difficoltà, non indossa la tunica ma i pantaloncini corti, ha appena scalato il Mortirolo in compagnia di tre ragazzi, l’albanese Marildo, il marocchino Imad e l’afghano Nur. Punta tutto sul ciclismo come metodo educativo: rispetto degli altri e condivisione della fatica.
Ogni volta una festa, in città, in paese, al mare o in montagna. Cicloamatori che partono a sciami all’alba, camper appostati sui piazzali dalla notte, tende tirate su per un pic nic, intere famiglie e coppiette, nonni e nipoti, gruppi di ragazzi ciondolanti: per vedere sfrecciare i fuggitivi, il tempo di un fruscio di farfalle. E per stare insieme in una giornata diversa dalle altre. «Qui in Valtellina siamo fuori dal mondo», dicono tre studenti di Tellio, Stefano, Denis e Raffaello, «quando mai ci capita di vedere tanta gente e tante belle…». E si guardano intorno adocchiando le miss.
Poi ci sono quelli che seguono il loro idolo paesano, come Vittorio e sua madre Franca, attratti dal fascino irresistibile del passista di Morbegno Gavazzi, con il quale l’amico d’infanzia Vittorio ogni tanto la sera va a bersi una birra: «Oggi la vedo dura», sussurra, «ma una passeggiata fin qui se la merita, il Francesco». Da Besana Brianza è più lunga, ma per il velocista Nizzolo questo e altro. Giuseppe e Mario stravedono per lui, sono vicini ai 70 e scalano ancora in bicicletta il Ghisallo: «Da bambino andavo a scuola pedalando, e ogni volta che salgo in bici è come tornare bambino».
Megafoni che gracchiano nomi di sponsor, gadget che volano dai palchi sulle teste delle scolaresche in rosa, musiche che ti rincorrono ovunque, pezzi di telecronache che escono dai caffè. Tra le famiglie con carrozzine e tra bambini in lacrime per un gelato caduto per terra o per un palloncino volato via, ci sono anche i nostalgici, la bergamasca Rosanna che appena può si muove per vedere una tappa, «perché il ciclismo piaceva tanto al mio povero papà, che quando guardava il Giro in tivù non potevi neanche toccarlo, stravedeva per il Gimondi».
«Appena esce il programma del Giro, io vado sul lavoro a comunicare le mie ferie». È la voce del veronese Ernesto, 38 Giri all’attivo: non pedalati ma visti dal vero, almeno tre tappe l’anno. 

«Sono uno sportivo e tifo per tutti, meglio se vince un italiano ma poi fa lo stesso». Il pensionato Telesforo e sua moglie Annamaria la pensano diversamente, sono partiti dalla provincia di Modena, con uno striscione: «Aru Serramazzoni è con te». Alla quinta tappa del Toscana Terra di Ciclismo, nell’aprile 2011, l’hanno visto piangere dopo una caduta e da allora l’hanno adottato e lo seguono ovunque.

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