Berlino fa come Paganini, e non ripete. Cosa, chiedete ? Ma il miracolo del 2006, naturalmente, quando una Nazionale Azzurra, certo non sfortunata ma anche tosta, seppe fermare la Francia, campione nel 1998 e ricca di campioni come Zidane, Vieira, Thuram, Trezeguet, Henry...., nella finale del mondiale, vinta poi ai rigori. E' anche vero che il miracolo richiesto quella volta era meno grande, ché la differenza tra le finaliste c'era, a favore degli "altri", ma meno consistente.
Francamente la cosa che temevo non era tanto la sconfitta, che mettevo nelle cose probabili, ma l'umiliazione, tipo la finale dell'Europeo del 2012, dove fummo mortificati dalla Spagna dopo aver disputato un bel torneo. Ecco, quello non è successo, e il 3-1 finale, maturato nel classico contropiede a tempo scaduto, quando la squadra bianconera era completamente riversata nel campo avversario per cercare il gol del pareggio, è ingiusto. Il risultato, non la vittoria del Barcellona, che si è dimostrato superiore, come sapevamo tutti, ma che non ha dominato.
Personalmente, avendo vissuto tutte le sette finali precedenti, e avendone quindi perse ben cinque, non sono particolarmente addolorato. Dispiaciuto certo, ma soprattutto per gli altri, tipo i tifosi più giovani, che hanno un entusiasmo ben maggiore del mio, e ci credevano, a dispetto dei rapporti di forza e del fatto che i fenomeni stavano quasi solo dall'altra parte.
E mi dispiace per quelli come Buffon e Pirlo che in quello stadio erano usciti ebbri di gioia per essere divenuti campioni del mondo, e adesso lo fanno da sconfitti, ancorché a testa alta. Per loro, con ogni probabilità era l'ultima occasione. Curioso che dei due il più affranto fosse Pirlo, sia perché normalmente mostra un carattere più controllato rispetto al compagno, sia perché lui comunque di Champions ne ha vinte due, nel Milan di Ancelotti, mentre il portierone bianconero nessuna. Ha mancato la seconda chance (parecchio difficile peraltro, probabilmente ha più rimpianti per la prima, ché la sconfitta di Manchester ai rigori contro i rossoneri non era inevitabile) e a 38 anni non è facile che gliene capiti una terza.
Però, quando arrivi in fondo di competizioni così, non è vero che poi la gente si ricordi solo dei vincitori. Basti pensare agli azzurri di USA 1994, sconfitti in finale ai rigori. QUalcuno non rammenta le lacrime di Baresi e lo sguardo smarrito nel vuoto di Baggio ?
In certe occasioni è comunque importante esserci, dire "io c'ero", e si rimane per sempre nel ricordo e nel cuore non solo dei tifosi ma anche degli sportivi.
Quelli veri.
Orgoglio Juve. Seconda soltanto al Trio meraviglie
Il Barcellona è la bellezza, i bianconeri non sfigurano. Notte in bilico finché dalla penombra non sbucano i fenomeni
INVIATO A BERLINO
Sotto la curva. Come se avessero vinto loro, mentre gli
altoparlanti dell’Olympiastadion sparano a palla «Un giorno
meraviglioso» degli U2. I tifosi bianconeri gridano Juve-Juve-Juve fino a
esaurire le gole, anche se la Coppa è finita là dove doveva finire.
Nella bacheca di un Barcellona che in questa notte berlinese ha creduto a
lungo di essere precipitato in una storia sbagliata. Una storia
costruita su un arcobaleno in bianco e nero. Allegri abbraccia i suoi e
sente il cuore che lotta per espandersi tra i legamenti, le ossa e i
muscoli del petto. Gli batte con tanto impeto da fargli temere che il
suo corpo possa espellerlo da un momento all’altro. E allora si
allontana curvo come se stesse portando sulle spalle il peso del mondo. E
invece non ha capito che il mondo non è mai stato così suo. Bisogna
essere orgogliosi quando si arriva secondi così. Ma così come?
Allegri sbianca. Partire peggio era impossibile. Incrocia le braccia e per dieci secondi non riesce a dire una parola. I tifosi blaugrana cantano «uniti si vince». Naturalmente in catalano. Quelli della Juve incassano male. In notti così non c’è gratitudine, non c’è passato. C’è solo l’adesso e qui. E l’allegria accumulata nei mesi scorsi non può fare niente contro l’angoscia del presente. E sugli spalti, si continua a soffrire come quando si avevano dieci anni. Eppure la Juve c’è. Non è quella di Belgrado. E neppure quella di Atene. È una squadra orgogliosa. Con almeno otto giocatori che potrebbero serenamente giocare anche con i catalani. Se sono a Berlino non è per caso.
E il Barcellona se ne accorge appena riprende la gara. Quando rientra in campo e si mette a giochicchiare come se fosse già domani. Invece aveva ragione Mario Andretti, grandioso pilota di formula uno, quando diceva: «Se tutto è sotto controllo significa che stiamo andando troppo piano». Ed è esattamente nel momento «tutto sotto controllo» che si infilano il tacco di Marchisio e il pari di Morata, un predestinato, che quando arrivò a Torino fece gridare alla sterminata platea internettiana: perché non abbiamo comprato Immobile? Il perché è sotto i loro occhi. Il settore della Juve esplode. Luis Enrique si accascia in panchina come se gli avessero sparato. Allegri salta. E con lui tutta la squadra. C’è speranza? Ce n’è eccome.
Finché dalla penombra di una partita così così si risveglia Leo Messi, il Piccolo Diavolo, un signore evidentemente di molte spalle al sopra dalla umana primordialità della folla. Decide di decidere. E lo fa un po’ prima della mezzora. Bonucci e Lichsteiner per affrontarlo si muovono a scatti, disarticolati, come se solo una parte del corpo gli appartenesse, mentre quell’altro, l’Inarrivabile, allarga e restringe lo spazio a secondo della sua volontà superiore. Un dominio mentale e tecnico che arriva prima di un gesto comunque impossibile da prevedere. Passi piccoli. Trenta centimetri. Sinistro, gran parata di Buffon, tap in di Suarez. La differenza è il trio delle meraviglie. Che allo scadere si concede anche una terza rete ingiusta con un colpo di Neymar. Ma stanotte deve essere per forza come dice Saramago: «La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è mai definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva». Fuochi d’artificio. Applausi. Fuori dallo stadio un solitario musicista argentino suona con il bandoneon una canzone di Astor Piazzolla.
Il boato diventa uragano
Il primo colpo arriva da sinistra, quando sono passati poco più di
tre minuti. La curva culé, dall’altra parte del campo, capisce in
anticipo quello che sta per succedere. Il boato diventa uragano quando
Jordi Alba lascia scivolare il pallone verso Neymar. Quello, il
brasiliano, ha un passo leggero, come se si muovesse su uno spartito di
musica per arpa. Galleggia a due centimetri da terra. Lichtsteiner lo
guarda con disperazione e lo affronta con la fissità di un manichino da
sarto. Da che parte vai? Dimmelo ti prego. Non fa in tempo a finire la
domanda, perché quello non solo non glielo dice ma è già passato oltre e
anzi il pallone è finito sui piedi di Iniesta che lo scarica con la
velocità di un videogioco a Rakitic in arrivo da dietro. Pogba non vede
il croato neanche quando gli passa di fianco, ma è come se capisse, per
la prima volta, qual è l’odore del vento. E il vento fa gol.
Mostri con piedi da santi
Duecento secondi. Il settore del Barcellona esplode. Dani Alves salta
in testa al goleador croato e lo butta per terra. Mucchio selvaggio.
Esultanza. Trombe. Juve stordita. Neanche a Belgrado, nel 1973, la prima
volta bianconera in una finale per campioni, era finita sotto così in
fretta. Johnny Rep ci mise quattro minuti per prendersi gioco di Zoff.
Dieci anni dopo l’Amburgo di Magath impiegò otto minuti a fare centro.
In poco più di tre non c’era ancora riuscito nessuno. Ma questi catalani
impastati di scuola olandese sono mostri con piedi montati dai santi.
Più che un avvertimento è un giudizio: tra la solidità e la bellezza è
una pia illusione immaginare che trionfi la solidità. E i blaugrana sono
bellezza. La Juve che cos’è? Si capirà tra poco. Allegri sbianca. Partire peggio era impossibile. Incrocia le braccia e per dieci secondi non riesce a dire una parola. I tifosi blaugrana cantano «uniti si vince». Naturalmente in catalano. Quelli della Juve incassano male. In notti così non c’è gratitudine, non c’è passato. C’è solo l’adesso e qui. E l’allegria accumulata nei mesi scorsi non può fare niente contro l’angoscia del presente. E sugli spalti, si continua a soffrire come quando si avevano dieci anni. Eppure la Juve c’è. Non è quella di Belgrado. E neppure quella di Atene. È una squadra orgogliosa. Con almeno otto giocatori che potrebbero serenamente giocare anche con i catalani. Se sono a Berlino non è per caso.
E il Barcellona se ne accorge appena riprende la gara. Quando rientra in campo e si mette a giochicchiare come se fosse già domani. Invece aveva ragione Mario Andretti, grandioso pilota di formula uno, quando diceva: «Se tutto è sotto controllo significa che stiamo andando troppo piano». Ed è esattamente nel momento «tutto sotto controllo» che si infilano il tacco di Marchisio e il pari di Morata, un predestinato, che quando arrivò a Torino fece gridare alla sterminata platea internettiana: perché non abbiamo comprato Immobile? Il perché è sotto i loro occhi. Il settore della Juve esplode. Luis Enrique si accascia in panchina come se gli avessero sparato. Allegri salta. E con lui tutta la squadra. C’è speranza? Ce n’è eccome.
Finché dalla penombra di una partita così così si risveglia Leo Messi, il Piccolo Diavolo, un signore evidentemente di molte spalle al sopra dalla umana primordialità della folla. Decide di decidere. E lo fa un po’ prima della mezzora. Bonucci e Lichsteiner per affrontarlo si muovono a scatti, disarticolati, come se solo una parte del corpo gli appartenesse, mentre quell’altro, l’Inarrivabile, allarga e restringe lo spazio a secondo della sua volontà superiore. Un dominio mentale e tecnico che arriva prima di un gesto comunque impossibile da prevedere. Passi piccoli. Trenta centimetri. Sinistro, gran parata di Buffon, tap in di Suarez. La differenza è il trio delle meraviglie. Che allo scadere si concede anche una terza rete ingiusta con un colpo di Neymar. Ma stanotte deve essere per forza come dice Saramago: «La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è mai definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva». Fuochi d’artificio. Applausi. Fuori dallo stadio un solitario musicista argentino suona con il bandoneon una canzone di Astor Piazzolla.
siete troppo scarsi,solo in italia potetem fare i gradassi,ma ancora per poco
RispondiEliminaAnche se il risultato dice il contrario, è una vittoria per tutti gli juventini, per il loro modo di essere fuori e dentro il campo, è una vittoria per tutta la società, per lo staff, per i giocatori, è una vittoria perchè la squadra ha combattuto alla pari contro degli avversari che in questo momento sono forse irraggiungibili, è una vittoria per la storia della juventinità che in tanti hanno cercato di affossare ma non ci sono riusciti, e mai ci riusciranno.
RispondiEliminaE' una sconfitta (anche se la pensano al contrario) per tutte quelle società che si stanno svendendo prima agli americani passando per i cinesi e finendo ai thailandesi, è una sconfitta per tutti quei presidenti (ma forse uno solo) che credono che il calcio sia cinema e adesso annaspano alla ricerca di un allenatore, per tutti quei Puponi che farebbero cosa sensata a ritirarsi, è una sconfitta verso tutti quei media (stampa e televisione) che sanno soltanto "gufare", è una sconfitta contro il sistema calcio italia di Dal Vecchio, Belloli che possono dare la mano a Blatter e fare un bel giro intorno al mondo.....ed è anche una sconfitta per Mister Conte ed i suoi 10€.....
Sempre e per sempre forza Juventus......