Il Job Act, allo stato, è una delle poche vere riforme che siano passate dal "FATTO!" annunciato dal gargantua sedente a Palazzo Chigi, alla realtà effettiva delle cose. Non è un'opera compiuta, ci sono ancora diversi pezzi da ultimare ed inserire. Però delle novità ci sono, come il forte indebolimento del famigerato (per la sua applicazione, più che per il principio in sé) articolo 18, la decontribuzione finalizzata ad incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Quanto ciò ha inciso sulla ripresa dell'occupazione ? Sicuramente in una qualche misura sì, anche se, lo sappiamo, le avvisaglie di ripartenza dell'economia - con conseguente, benefico rimbalzo sull'occupazione - sono soprattutto dovute alla iniezione di liquidità che giunge dalla BCE con il QE in salsa europea.
Il problema, evidenzia Luca Ricolfi nell'articolo che segue, è nella qualità dei nuovi contratti (ma sempre meglio un lavoro precario che nessun lavoro, direbbe monsignor De Lapalisse ) e nella coperta corta, a questi bassi livelli di crescita, tra produttività e occupazione.
Buona Lettura
OCCUPAZIONE O PRODUTTIVITA' ?
Leggendo le recenti statistiche del mercato del lavoro,
molti osservatori si sono fatti la seguente idea: il Jobs Act sta lentamente
cambiando la qualità dell'occupazione, favorendo i passaggi da tempo
determinato a tempo indeterminato, ma non sta creando nuovi posti di lavoro.
Se però solleviamo lo sguardo dalle statistiche dell'ultimo
mese o dell'ultimo trimestre, e proviamo a guardare le cose in una prospettiva
un po' più lunga, il panorama che ci si presenta ci riserva qualche sorpresa.
La crisi ha distrutto circa 1 milione di posti di lavoro, ma
dalla fine del 2013 l'occupazione
totale ha ricominciato a salire, prima sotto Letta (2013), poi sotto Renzi-1
(2014), poi sotto Renzi-2 (2015, vigente la decontribuzione). Del milione di
posti di lavoro bruciati nel quinquennio 2008-2013 ne abbiamo ricuperati
351mila (più di 1/3), di cui 139mila sotto Letta, 88mila sotto Renzi-1, e altri
124mila sotto Renzi-2.
Difficile dire se i 124mila posti di lavoro creati
dall'inizio del 2015, prima sotto la spinta della decontribuzione, poi (dal 7
marzo) sotto la spinta del Jobs Act, siano merito delle nuove regole, o
costituiscano un semplice rimbalzo, che compensa il rallentamento di fine 2014
(presumibilmente dovuto all'attesa degli sgravi).
Quello che però è certo è che, da circa 2 anni, il trend
dell'occupazione totale è tornato ad essere positivo, e il suo ritmo medio è
stato di 40-50mila posti a trimestre. Non è molto, ma è già qualcosa: se
continuasse così, in 3-4 anni torneremmo ai livelli pre-crisi.
Il quadro si fa decisamente meno confortante se, dalla
quantità di posti di lavoro, passiamo a considerare la loro qualità. Il peso
dei contratti a termine era del 13-14% prima della crisi, era al medesimo
livello sotto Monti e sotto Letta, e tale è rimasto sotto Renzi. Gli ultimi
dati (2° trimestre 2015, vigente il Jobs Act) segnalano semmai una leggera
tendenza all'aumento rispetto a un anno prima. Quanto all'altro indicatore di
precarietà, il peso del part-time involontario sul part-time totale, la
situazione è semplicemente drammatica.
Prima della crisi i lavoratori dipendenti che lavoravano a
orario ridotto per necessità e non per propria scelta erano circa il 40% del
totale, oggi sfiorano il 70%. Il loro peso sull'insieme dei lavoratori
dipendenti era già in aumento prima del 2007-2008, è cresciuto smisuratamente
durante gli anni della crisi, e ha continuato a farlo sotto Letta e sotto
Renzi, sia prima sia dopo il Jobs Act.
Dunque: il numero di occupati sta aumentando, ma la qualità
dei contratti di lavoro no.
Contemporaneamente, come abbiamo segnalato in un precedente
articolo, la domanda di lavoro sembra avere cambiato radicalmente le proprie
preferenze. Nel corso della crisi i lavoratori italiani hanno perso colpi
rispetto agli stranieri, i giovani rispetto agli anziani, gli uomini rispetto
alle donne, i meno istruiti rispetto ai più istruiti, gli occupati del sud
rispetto a quelli del centro-nord.
Questa profonda ristrutturazione della domanda di lavoro,
tuttavia, si è accompagnata ad una marcata riduzione degli investimenti, quasi
che il rilancio dell'economia italiana potesse poggiare esclusivamente su una
diversa selezione della forza lavoro, più attenta alle doti di preparazione,
esperienza, affidabilità, disponibilità al sacrificio.
Diversamente che in passato (anni '60), la ricetta non ha
funzionato. E la prova è molto semplice, anzi impietosa: comunque la si misuri,
la produttività del lavoro è sostanzialmente ferma da una quindicina di anni.
Cambiare drasticamente la composizione della forza lavoro e ridurre la quota di
Pil destinata agli investimenti hanno avuto il solo effetto di allargare
drammaticamente il divario di produttività fra l'Italia e gli altri paesi.
Ecco perché, oggi, la politica economica si trova di fronte
a un dilemma vero. Il nostro tasso di occupazione resta, nonostante i modesti
progressi degli ultimi due anni, uno dei più bassi fra i 34 paesi Ocse.
Ciò suggerirebbe di puntare tutte le carte sull'aumento dei
posti di lavoro regolari, in modo da riassorbire i tre grandi mostri del
sistema-Italia: il lavoro nero, la disoccupazione, l'esercito degli
scoraggiati. Se però guardiamo alla dinamica (ma sarebbe meglio dire alla
“statica”) della produttività del lavoro, il suo terrificante ristagno da
inizio millennio farebbe pensare che la priorità numero uno dell'Italia sia
piuttosto l'incentivazione degli investimenti, unica via per interrompere il
ristagno della produttività.
Naturalmente, entrambe le politiche comportano i loro
rischi: se si incentiva la creazione di posti di lavoro diminuisce la
convenienza relativa dell'investimento, e la dinamica della produttività può
peggiorare ulteriormente. Se si incentivano gli investimenti i guadagni di
produttività possono rendere superflua una parte della forza lavoro, aggravando
il problema occupazionale.
Il nocciolo del rebus italiano è proprio qui. Le imprese
vorrebbero più produttività, perché altrimenti non riescono a stare sul
mercato. I lavoratori, effettivi e potenziali, vorrebbero più occupazione,
perché il 25% delle famiglie non arriva alla fine del mese. Hanno ragione
entrambi. Il problema è che, per raggiungere tutti e due i risultati – più
occupazione e più produttività – il Pil deve crescere di almeno il 2-3% l'anno:
un obiettivo da cui, temo, siamo ancora lontani.
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