Sono cresciuto negli anni '70 del secolo andato, quando una folta minoranza dei giovani si dedicava, più o meno con intelligenza, alla politica. La stragrande parte era di sinistra, ovviamente divisa tra estremisti ( cd. "gruppettari") e ortodossi (i "figgiciotti", i giovani del PCI), poi c'erano quelli di destra, i "fascisti", stava nascendo cielle.
Le librerie erano piene di titoli editi da Laterza, Feltrinelli, Editori Riuniti : tutti rigorosamente a gauche. Professori, intellettuali, artisti e pseudo tali, inevitabilmente di sinistra.
Questa cosa è durata in modo massiccio per 20 anni, dominante e incontrastata. Poi, nell'epoca berlusconiana, il fronte ha iniziato ad avere delle incrinature, perché in Italia il fascino del soccorso al vincitore è pressoché irresistibile, e quindi nell'età del Cav. ,il monopolio iniziò quantomeno a crinarsi, pur restando prevalente.
Adesso che Berlusconi ha finito il suo tempo (anche per ragioni anagrafiche : ha compiuto in questi giorni 79 anni ), si ritorna tutti a sinistra con Renzi ?
Non esattamente, fa notare Galli della Loggia. Sicuramente i renziani sono tanti, sempre di più, ma siccome Renzi non è precisamente di sinistra, è Renzi e basta, ecco che parlare di ritorno alla trascorsa stagione monolitica sarebbe inesatto.
Piuttosto, è l'eterna corsa verso il nuovo vincitore.
Finché vince.
Buona Lettura
Ambigua ricerca delle élite
La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad
abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno
quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti,
che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi,
tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di
Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto
meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio.
Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato
più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico
della nostra storia nazionale.
Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il
centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite
italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima
Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema
ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le
maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente
i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una
base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema —
immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato
«aggiornamento».
Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi,
l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo
insignificante.
Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta,
direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti
nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie
interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo
alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di
opportunismo, ma nulla di più.
Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio
Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra
né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno
alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta,
proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione.
È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande
stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti:
intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando
intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin
dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu
assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano
bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri
leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo
anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non
c’ha neppure provato.
È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe
dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con
la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a
un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a
rapidamente abbandonarli. Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata
realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata
colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che
specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile
trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una
persona piuttosto che da un partito.
«Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono
né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e
le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto
all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo
Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato
d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del
Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie. Ma le cose
non sono così semplici come possono apparire.
Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non
abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che
un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia
un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di
decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una
politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle
concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E
quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità,
obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella
vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente,
fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto,
contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un
leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.
Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo
non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e
ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e
l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule
del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si
tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del
vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali,
nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano
un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno
forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con
quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e
nel medesimo modo?
Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di
una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza
di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio
dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.
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