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lunedì 7 settembre 2015

O RISOLVIAMO IL PROBLEMA AFRICANO IN AFRICA, O SAREMO SOMMERSI

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Ieri su La Stampa c'erano due interessanti commenti di Giovanni Orsina e Mario Deaglio. Riporto il secondo anche perché il primo è riportabile solo dagli abbonati e io la fatica di esserlo ad un giornale che ha Calabresi e Gramellini come direttore e vice la potevo sostenere solo quando avevano Ricolfi come opinionista fisso. 
Orsina ricordava a tutti i populisti e i faciloni di questo mondo, una marea, quelli che protestano sempre e hanno soluzioni in tasca di un semplicismo disarmante e demenziale, come crisi come quella della migrazione di milioni di persone da terre devastate dalla guerra ma anche dalla miseria, sono risolvibili solo mediante l'arte della politica, che invece latita a livello mondiale e da noi è ritenuta superflua quando non dannosa.
E così meglio mandare in parlamento cittadini qualunque, eletti dalla Rete, che siccome onesti - fino a prova contraria e da verificare al momento delle tentazioni, finora assenti nella loro vita mediocre e normale - sicuramente sono comunque da preferire ai politici di mestiere.
E invece non è così. Come ricordava Benedetto Croce, per citare uno sicuramente non divenuto famoso per la disonestà, la qualità del politico è nella sua capacità di governare la cosa pubblica, di prevenire e/o risolvere problemi di vasta portata, con capacità di sintesi tra interessi spesso contrapposti. L'onestà, se c'è, è un piacevole di più, ma non certo indispensabile. Il problema grave e angoscioso dell'immigrazione non si risolve col buonismo, con la mano sul cuore così come non sono sufficienti i muri. 
Sicuramente l'indifferenza non è una risposta, ma nemmeno l'idea di poter accogliere tutti, come sembra pensare l'uomo che siede sul trono di Pietro, lo è.
Bisogna affrontare seriamente, in modo politico e internazionale, la questione africana e mediorientale, per iniziare a dare soluzioni  alle ragioni che spingono queste moltitudini a fuggire dalla loro terra, senza avere con sé nulla, rischiando la morte propria e dei loro cari, bambini compresi. E chissà,  l'investimento di risorse importanti in quei territori, con l'impegno delle imprese europee, potrebbe comportare anche un rilancio dell'economia del vecchio continente, premiandone la generosità. 
Buona Lettura




Perché l’Ue deve premiare chi accoglie

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Alla base dell’Unione Europea non ci sono i dazi doganali, il rapporto tra deficit e pil, i regolamenti su come si deve fare il formaggio o su quale deve essere la dimensione delle prese elettriche. La grande avventura europea è fondata sui valori: libertà, uguaglianza, democrazia, rifiuto del terribile passato di due guerre mondiali, che furono prima di tutto guerre europee.  
 
Proprio per questo, chi si sente europeo non può non provare qualcosa che ondeggia tra la perplessità e l’indignazione di fronte alle immagini che per tutta la settimana sono arrivate dall’Ungheria: persone rinchiuse dietro a reticolati circondati dalla polizia, bambini strattonati e marchiati come animali, tifosi di una squadra di calcio che vanno a picchiare i profughi. Pur nella profonda diversità delle situazioni, è inevitabile, che il pensiero vada ad altri reticolati e ad altri treni che, poco più di settant’anni fa, partivano da Budapest con il consenso del governo, tra la generale indifferenza degli abitanti, verso una terribile «destinazione finale».  
 
Intrecciando il linguaggio dei valori con quello dell’economia si arriva alla conclusione che l’attuale problema dei profughi, troppo a lungo ignorato o minimizzato, non può essere certo risolto con il populismo becero, frequente nel dibattito politico italiano, non può essere risolto senza costi. L’Europa sta traendo un enorme vantaggio economico (il cui ordine di grandezza è di oltre 100 miliardi di euro all’anno) dalla riduzione del prezzo del petrolio. Una parte di questo vantaggio, che ci viene dall’estero senza alcun nostro merito, deve essere utilizzato per coprire i costi immediati del grande problema che ci viene anch’esso dall’estero.  

E’ ormai chiaro che si tratta di un problema di livello europeo e non nazionale; e l’Europa che ha risolto le complicate questioni delle «quote latte» non può non affrontare quelle delle «quote» dei profughi. Il meccanismo è, di per sé, piuttosto semplice, facilitato dalla decisione di Germania e Austria di accogliere centinaia di migliaia di profughi. I paesi che rifiutano l’accoglienza (come l’Ungheria e altri dell’Europa centro-orientale, i cui milioni di profughi furono generosamente ospitati in Occidente durante la «guerra fredda») devono contribuire a questi costi, che saranno addizionati al loro contributo annuale all’Unione Europea; i paesi che li accolgono, devono detrarre il costo dell’accoglienza dal contributo annuale che pagano a Bruxelles.  

E’ chiaro che dobbiamo riservare agli esseri umani che arrivano sul territorio europeo almeno gli stessi principi che applichiamo alle merci che arrivano nei porti europei: se lo spazio economico europeo è unico, unico deve essere anche lo «spazio umano». Questo significa che un migrante accolto in Italia deve, notificando i suoi spostamenti e con modalità che dovranno essere stabilite (magari con un lasciapassare), potersi spostare, con assoluta tracciabilità, in tutto il territorio dell’Unione. 

Questa è la parte facile del problema e riguarda la gestione dell’emergenza. Il problema, però, ha dimensioni strutturali e richiede soluzioni strutturali, perché come ci ha ricordato venerdì il capo dello stato maggiore delle forze armate degli Stati Uniti, i flussi migratori dall’Africa continueranno almeno per vent’anni. Per convincersene basta confrontare l’evoluzione demografica dell’Europa con quella dell’Africa e del Medio Oriente: un continente ricco e sempre più vecchio ha alle sue frontiere meridionali un continente molto povero che letteralmente scoppierà di giovani. In un modo o nell’altro, una parte di questi giovani continuerà a «fare il salto», anche se per farlo bisogna essere chiusi in un container o nella stiva di un aereo. 

La soluzione di lungo termine si trova quindi in Africa e sulle coste asiatiche del Mediterraneo e comporta l’impiego delle risorse per finanziare un enorme programma di sviluppo a lungo termine delle aree povere che ci stanno davanti: infrastrutture di ogni tipo devono essere costruite, probabilmente finanziate in parte dalla Banca Mondiale o dalla nuova Banca di Sviluppo creata dai paesi emergenti, in parte dalla Banca Europea degli Investimenti, dal momento che la parte maggiore di questi investimenti la faranno, almeno nella fase iniziale, le imprese europee.  

Nel giro di venti o trent’anni, o aiuteremo la crescita dell’Africa oppure l’Africa ci sommergerà. 
Per questo deve finire il sostanziale disinteresse, non solo dell’opinione pubblica ma anche dei governi per quello che avviene sulla riva Sud del Mediterraneo e nel grandi spazi a Sud del Sahara che il cittadino medio europeo conosce sommariamente come posti nei quali si possono passare vacanze esotiche. Il turismo e l’indifferenza non sono più una soluzione, il coinvolgimento sì.

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