Ero un po' indeciso se postare il contributo settimanale di Luca Ricolfi, ripreso dal Sole 24 Ore, perché un pochino troppo tecnico, e con più dubbi che risposte. Non è ovviamente una critica al bravissimo professore, ma siccome quella del blog è una selezione anche in funzione degli amici che leggono, questo articolo poteva anche non essere scelto. Dopodiché ho pensato che tra i lettori del Camerlengo diversi condividono con me la convinta ammirazione per Ricolfi, l'apprezzamento delle sue analisi, e per questo l'appuntamento settimanale è bene mantenerlo. anche quando i suoi articoli sono un pochino meno agreable.
E quindi, Buona Lettura
Il rebus produttività e il ventennio perduto
di LUCA RICOLFI
I dati di gennaio sull’occupazione, che hanno segnalato un
incremento di occupati a dispetto della fine della decontribuzione totale,
hanno acceso un briciolo di speranza sull’evoluzione della congiuntura
economica del nostro paese. Le analisi econometriche mostrano, senza troppi
margini di dubbio, che il ritmo di formazione dei posti di lavoro è, da qualche
trimestre, un po’ superiore a quello che ci si potrebbe attendere in base
all’evoluzione del Pil. La dinamica del Pil, a sua volta, è in lenta
accelerazione, e nell’ultimo trimestre del 2015 ha oltrepassato l’1%
su base annua. Se guardiamo all’intero 2015, possiamo notare che, per la prima
volta dal 2011, la dinamica del Pil non è stata inferiore a quella
dell’occupazione. Questo significa, in buona sostanza, che in questo momento la
produttività per addetto è sostanzialmente ferma, ossia non sta né crescendo né
diminuendo.
È una buona notizia?
Dipende dai punti di vista. Se fossimo un paese normale, dovremmo esprimere preoccupazione, perché in un paese normale la produttività del lavoro non sta ferma ma, tendenzialmente, cresce di anno in anno. Ma noi non siamo un paese normale: l’Italia è uno dei pochissimi paesi del mondo sviluppato in cui la produttività del lavoro non tende ad aumentare, bensì a diminuire. Nel 2000 il valore aggiunto annuo per occupato era un po’ superiore a 72 mila euro (a prezzi 2010). Nel 2007, alla fine del breve ciclo di espansione 2006-2007 sfiorava i 74 mila euro. Nel 2009, al culmine della recessione mondiale, era sceso sotto i 70 mila euro. Oggi è ancora più basso (meno di 69 mila euro) che nell’annus horribilis della lunga crisi 2007-2014. Per trovare un anno in cui eravamo meno produttivi di oggi bisogna risalire al 1996, ossia a vent’anni fa. Guardando a ritroso, dunque, l’attuale ristagno della produttività del lavoro suona come una buona notizia: forse abbiamo smesso di precipitare, dopo una lunga stagione di erosione del prodotto per occupato.
Dipende dai punti di vista. Se fossimo un paese normale, dovremmo esprimere preoccupazione, perché in un paese normale la produttività del lavoro non sta ferma ma, tendenzialmente, cresce di anno in anno. Ma noi non siamo un paese normale: l’Italia è uno dei pochissimi paesi del mondo sviluppato in cui la produttività del lavoro non tende ad aumentare, bensì a diminuire. Nel 2000 il valore aggiunto annuo per occupato era un po’ superiore a 72 mila euro (a prezzi 2010). Nel 2007, alla fine del breve ciclo di espansione 2006-2007 sfiorava i 74 mila euro. Nel 2009, al culmine della recessione mondiale, era sceso sotto i 70 mila euro. Oggi è ancora più basso (meno di 69 mila euro) che nell’annus horribilis della lunga crisi 2007-2014. Per trovare un anno in cui eravamo meno produttivi di oggi bisogna risalire al 1996, ossia a vent’anni fa. Guardando a ritroso, dunque, l’attuale ristagno della produttività del lavoro suona come una buona notizia: forse abbiamo smesso di precipitare, dopo una lunga stagione di erosione del prodotto per occupato.
Da che cosa dipende una così formidabile propensione al
declino? Una parte della spiegazione sta in un fatto statistico: la
produttività per addetto diminuisce perché il numero medio di ore lavorate per
occupato, dal 2007, è sempre diminuito (tranne nel 2015, in cui ha iniziato
una lentissima risalita). Se anziché misurare la produttività con il rapporto
fra Pil e occupati la misuriamo con quello fra Pil e ore lavorate la
traiettoria degli ultimi 20 anni si fa un po’ diversa. Il prodotto per ora
lavorata era ancora crescente nella seconda metà degli anni 90, ma negli ultimi
15 anni (trascurando il tonfo del 2009) è sempre rimasto sostanzialmente
invariato, con una lievissima tendenza alla diminuzione: nel 2000 un’ora di
lavoro generava un reddito di 37 euro, oggi (sempre a prezzi 2010) ne genera
uno appena inferiore (36 euro e mezzo).
Il vero problema, quindi, è di capire che cosa fa sì che
negli ultimi 15 anni la produttività media del sistema, misurata come prodotto
per ora lavorata, non sia mai cresciuta.
Va osservato infatti che, comunque, in
questi 15 anni il progresso tecnico e organizzativo ha sicuramente investito
migliaia di imprese e organizzazioni, che hanno rinnovato impianti, adottato
nuove tecnologie, digitalizzato i processi informativi, importato modelli
produttivi più efficienti. Se a dispetto di tutto ciò la produttività media del
sistema è rimasta stagnante, sia prima sia dopo la lunga crisi del 2007-2014,
devono essere stati all’opera contro-fattori ben potenti, che hanno per così
dire eliso, neutralizzato, controbilanciato la naturale tendenza delle imprese
ad aumentare l’efficienza.
Insomma, il lungo e perdurante ristagno della produttività,
iniziato improvvisamente (e solo in Italia) alla fine degli anni 90, e durato
ormai quasi un ventennio, richiederebbe una spiegazione.
Dico questo perché, a
mio parere, il problema centrale dell’Italia è il suo bassissimo tasso di
occupazione, fra i più modesti dell’occidente, e solo una dinamica molto
pronunciata della produttività, basata sulla rimozione dei fattori che l’hanno
bloccata per un quindicennio, può farci sperare che, in un prossimo futuro,
l’occupazione torni a crescere a un ritmo tale da riassorbire, almeno in parte,
il vastissimo “esercito di riserva” dei disoccupati, degli scoraggiati e dei
lavoratori in nero, una massa di circa 10 milioni di persone che stanno fuori
del circuito del lavoro regolare.
Si potrebbe obiettare che, di spiegazioni del ristagno della
produttività, in realtà ne esistono parecchie, alcune francamente piuttosto
fantasiose: ingresso nell’euro, declino della manifattura, liberalizzazioni del
mercato del lavoro, aumento della pressione fiscale, riforme della pubblica
amministrazione, rigidità dell’occupazione, potere sindacale, compressione dei
consumi, erosione dei margini di profitto, calo degli investimenti, solo per
citarne alcune. Il punto, però, è che le spiegazioni sono troppe e troppo
spesso incompatibili fra loro, mentre manca una vera diagnosi, ossia un’analisi
che indichi che cosa dovremmo fare per consentire alla produttività del lavoro
di tornare a crescere a un ritmo normale, analogo a quello degli altri paesi
avanzati.
Eppure è proprio di una tale diagnosi che avremmo bisogno, se
desideriamo interrompere la lunga stagione di ristagno che ci accompagna dalla
fine degli anni 90.
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