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sabato 16 aprile 2016

MICHELE AINIS : PERCHE' VOTARE DOMENICA

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Domani si vota - per chi andrà - sul referendum proposto da alcune regioni italiane e concernenti la questione del rinnovamento delle concessioni delle trivellazioni in mare per l'estrazione del petrolio.
Come già ben specificato da vari commentatori, tra cui Davide Giacalone ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2016/04/referendum-trivelle-comunque-vada-sara.html ), come spesso accade l'esito referendario non è perfettamente posto, e alla fine non sarà impossibile non tenere conto dell'esito, in un senso e nell'altro.
Ammesso e non concesso che il referendum ottenga il quorum necessario per essere valido, cosa che appare improbabile, e a quel punto vincessero i sì (scontato, visto che quelli per il NO hanno scelto la tattica dell'astensione per far fallire la consultazione) , non è che le trivellazioni cesserebbero d'incanto. Semplicemente, se non ho capito male, non si perpetuerebbero le concessioni in essere fino ad esaurimento dei giacimenti trovati.  
Certo, a quel punto i referendari potrebbero gridare al menefreghismo del potere di quella che è comunque stata l'indicazione popolare prevalente, ma questo avviene ed è avvenuto in molti casi precedenti ( privatizzazione RAI, responsabilità civile dei giudici, voto uninominale, finanziamento pubblico...ma lì dico al volo, citando i primi che mi vengono in mente).
Allo stesso tempo, il fallimento del referendum non significherebbe che l'Italia possa procedere senza la palla al piede dei furori ambientalisti.
Si è poi accesa una polemica sulla questione ASTENSIONE, cui il governo esorta, e contro la quale ci sono stati pronunciamenti anche illustri, quali quello del presidente della Corte Costituzionale che ha ribadito il carattere doveroso del voto.
Naturalmente l'esternazione ha rinfocolato la diatriba, piuttosto che sedarla.
Nel merito si sono espressi, con pareri opposti, due valentissimi opinionisti del Corriere, Michele Ainis e Angelo Panebianco.
Li riporto, in due post distinti (in questo do spazio al costituzionalista), dicendo che trovo elementi di accordo e disaccordo con entrambi.
Con Ainis condivido che usare l'astensione come alleato formidabile contro il partito referendario non è leale (e infatti il quorum per la validità in futuro sarà ridotto).
Peraltro è pur vero che, in qualche misura, anche i referendari si appoggiano un po' alla pigrizia di coloro, e non sono pochi, che sarebbero in generale contrari ai cambiamenti perseguiti con lo strumento referendario, ma non motivati al punto di scomodarsi e andare alle urne.
E' un po' come l'equivoco della democrazia sul web, tanto predicata dagli ortotteri per esempio, che favorisce i personaggi più radicali, ideologizzati, rispetto al resto, la cd. maggioranza silenziosa.
Il risultato è, per esempio, che il voto a favore del pentastellati è composto in parte significativa da elettori di destra, che però, per lo più, non frequentano la rete, non votano nelle consultazioni via web, e tra queste alla scelta dei candidati elettorali (le "parlamentarie", le quirinarie e via così).
A parte questo, sono d'accordo con Panebianco, e non con Ainis, quando si stigmatizza l'esternazione del Presidente della Consulta.
I vertici delle istituzioni hanno - avevano ? più probabile - riposto il loro prestigio molto nella posizione di discrezione, di non partecipazione all'agone politico, di essere personaggi super partes.
Da molto tempo questo non avviene più, e infatti la gente si fida assai di meno.


E' meglio votare niente espedienti

di Michele Ainis

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E tu, ci andrai a votare? In ogni referendum la domanda che martella gli italiani è sempre questa: non più come votare, bensì piuttosto se votare, se aggiungersi al popolo del quorum.Succederà pure domenica, nella consultazione sulle trivelle in mare; e alla chiusura dei seggi conosceremo immediatamente il risultato, perché ormai conta l’affluenza, non già la preferenza.
Diciamolo: è una deriva ingannevole, sleale.

Approfitta della quota d’astensionismo fisiologico per sabotare il referendum, sommando agli indifferenti i contrari, mentre i favorevoli non hanno modo di moltiplicare il «sì», mica possono votare per due volte. Dunque l’appello all’astensione è un espediente, se non proprio un trucco, come affermò Norberto Bobbio nel 1990.

Un tempo, durante la gioventù della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto. Nel primo referendum della nostra storia – quello sul divorzio, nel 1974 — le truppe di Fanfani e di Pannella si contarono alle urne, non davanti alla tv; e infatti andò a votare l’87,7% degli elettori. Percentuali intorno all’80% segnarono altre consultazioni degli anni Settanta e Ottanta: il finanziamento ai partiti, l’aborto, l’ergastolo, la scala mobile. E in molteplici occasioni i referendum vennero respinti con un voto — libero, esplicito, diretto.

Dopo di che s’ingrossa la slavina. Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno invitato gli elettori a disertare le cabine elettorali, in questa o in quell’altra occasione. Talvolta l’ha fatto anche la Chiesa: celebre l’appello del cardinal Ruini, al referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Non meno celebre l’«andate al mare» di Craxi, al referendum del 1991 sulla preferenza unica. Nel primo caso l’appello fu raccolto, nel secondo no. Ma al di là dei suoi esiti alterni, questa strategia un risultato complessivo l’ha prodotto, depotenziando il referendum. Tanto che la riforma costituzionale corregge al ribasso il quorum (se il referendum è sostenuto da 800 mila firme), anche per ostacolare la reiterazione del giochino astensionista.

Ecco perché si rivelano fallaci le critiche al presidente della Consulta, Paolo Grossi. Ha detto: il voto è un dovere, esprime la pienezza della cittadinanza. E che altro avrebbe dovuto dire? Che il referendum è uno spreco di tempo, che l’elettore virtuoso coincide con il non elettore, che le sole urne democratiche sono le urne cinerarie? I guardiani della Costituzione non possono ignorare le sue norme più pregnanti: il voto è un «dovere civico», recita l’articolo 48. E nei doveri costituzionali risuona il timbro etico della nostra Carta, vi si riflette la lezione di Mazzini. Difatti il presidente Mattarella ha già fatto sapere che lui, sì, andrà a votare.

Poi, certo, il voto è anche un diritto. E ciascuno resta libero d’esercitare o meno i diritti che ha ricevuto in sorte. Tanto più quando s’annunzia un referendum, la cui validità è legata al quorum. Ma questo vale per i cittadini, non per quanti abbiano responsabilità istituzionali. Loro sono come i professori durante una lezione: non possono dire tutto ciò che gli passa per la testa, perché hanno un ascendente sugli allievi, e non devono mai usarlo per condizionarne le opinioni. Come scrisse Max Weber, la cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti. Anche perché i profeti dell’astensionismo, nel nostro ordinamento, rischiano perfino la galera, secondo l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge che disciplina i referendum. Norme eccessive, di cui faremmo meglio a sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto, l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio.

 

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