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lunedì 18 luglio 2016

L'ILLUSIONE EUROPEA DI UNA PACE PER DIRITTO LAICO.

Risultati immagini per una polizia europea

Quando ancora il terrorismo islamico non mordeva in maniera così feroce, con cellule e/o lupi solitari infervorati dalla propaganda ISIS (o Daesh, se preferite), Angelo PAnebianco già ammoniva, novello Cassandra, sull'insipienza europea in materia di difesa e sicurezza. NOn esiste un esercito europeo si sa - mentre ci siamo inventati la moneta...- e nemmeno esiste l'auspicata polizia comunitaria, che tratti le frontiere europee come UNICHE, da salvaguardare al medesimo modo, e invece vediamo cosa avviene.
L'anomala pace durata per oltre 60 anni, favorita dal trauma dello sterminio di decine e decine di milioni di esseri umani dal conflitto mondiale diviso in due tappe (ché questo furono le due guerre mondiali, la seconda assolutamente frutto delle conseguenze della prima) , ha fatto e fa credere a generazioni di europei che da noi la guerra non ci sarà più, e questo perché noi cosi affermiamo e vogliamo. Una sorta di diritto "laico" alla non belligeranza.  Bella cosa la pace, indubitabilmente, ma per farla bisogna essere in due.
L' editoriale del professore e penna principe del Corsera - come diventerà il nostro giornalone principale sotto Cairo ?? - è da leggere, come sempre, e da meditare.
Con attenzione non balneare (o bordo piscina).





Sicurezza l’europa alla prova

di Angelo Panebianco

 

Prima della disgregazione di Siria, Iraq e Libia, prima dello Stato Islamico, prima che i «crociati» europei finissero nel mirino del terrorismo jihadista, prima che cominciasse la mattanza (ma anche prima — va ricordato — che una grande potenza, la Russia, mangiandosi la Crimea, dichiarasse morto il principio, fondamento della pace in Europa, dell’inviolabilità dei confini statali), insomma ancora pochi anni fa, soltanto qualche raro cultore di storia e di politica internazionale poteva immaginare come sarebbe andata a finire: le sorti dell’Unione non si sarebbero decise sul governo della moneta, l’Unione bancaria, le politiche fiscali, ma sulle questioni della vita e della morte, sulla capacità o meno dell’Europa di dare una efficace risposta collettiva sulla sicurezza.

Primum vivere, deinde philosophari . Se non si sopravvive, il resto non ha importanza. Sfortunatamente, finita la lunga pace, storicamente anomala, che abbiamo conosciuto dopo il 1945, siamo tornati alla «normalità». E la normalità consiste nel fatto che è sulla sicurezza (e solo sulla sicurezza), sulla capacità o meno di contrastare la violenza, che si decidono le sorti delle aggregazioni politiche, già esistenti o in cantiere. È sempre stato così. Solo un abbaglio collettivo ha fatto credere, per lungo tempo, che, nel caso dell’Europa, le cose sarebbero andate diversamente, che sarebbe bastata l’integrazione economica per generare l’unità politica.

Poiché i vecchi riflessi sono duri a morire, ancora pochi giorni fa (prima della carneficina di Nizza) si discuteva di Brexit in termini quasi esclusivamente economici. Ma le conseguenze di Brexit sono gravi, prima di tutto, sul piano geopolitico: l’Unione perde la sua principale potenza militare, si allarga il fossato con gli Stati Uniti, si rafforza la capacità di condizionamento degli Stati europei da parte della Russia. Nello stesso momento in cui, direttamente coordinati, o comunque sempre ispirati, dall’estremismo mediorientale, jihadisti europei prendono le armi contro gli altri europei.

Basta guardare in faccia Juncker e gli altri responsabili delle istituzioni europee (Merkel è ancora, da questo punto di vista, un enigma) per capire che non sono questi i Churchill che servirebbero ora all’Europa. D’altra parte, sarebbe anche ingiusto pretenderlo. Vengono da un passato confortevole e pacifico. Sono stati politicamente allevati in un’altra stagione. Non appartengono al futuro. E sono inadatti al presente.

Qualche azzeccargarbugli potrebbe dire che, a norma dei trattati, le istituzioni europee possono fare poco. Ma nelle situazioni di emergenza i trattati vanno forzati. Sono le norme che devono essere adattate alla vita e non il contrario. Il problema , nella sua drammaticità, è semplice: o l’Unione riesce a dimostrare agli europei che è in grado di agire collettivamente per innalzare i livelli di sicurezza oppure i topi scapperanno dalla barca che affonda; i cittadini cercheranno (illudendosi) nei vecchi Stati una risposta ai problemi della sicurezza, ascolteranno le sirene degli antieuropeisti che dicono che la salvezza consiste nel rinserrarsi dentro i confini nazionali.
O l’Unione riuscirà rapidamente a trasformare la sicurezza in un «bene pubblico» (in quanto tale indivisibile) oppure chiuderà i battenti. Che la sicurezza non sia, in Europa, un bene pubblico indivisibile, tale per cui le minacce a un membro dell’Unione siano avvertite da tutti gli altri come una minaccia all’Unione nel suo insieme, è provato da tante cose: ad esempio, dalla insofferenza con cui gli europei-occidentali trattano la paura, storicamente giustificata, che ispira la Russia agli europei dell’Est (la collaborazione con la Russia è necessaria ma senza ignorare quelle legittime paure). È provata, ancora, dall’ostilità di quegli stessi Paesi dell’Est (e non solo) per la ricerca di soluzioni condivise sull’immigrazione. O dalle opposte posizioni odierne di Francia e Italia sulla questione libica. O anche dalla solidarietà solo di facciata di molti europei per una Francia aggredita molto più di altri (fino a ora) dal terrorismo islamico.

Il problema della sicurezza europea ha due facce. La prima riguarda il modo in cui evolverà la situazione là dove l’infezione è nata, il Grande Medio Oriente, il mondo islamico (dove il terremoto turco ha appena reso ancora più confusi e imprevedibili i giochi). Ma su questo c’è poco che gli europei possano fare almeno finché non saranno chiare le scelte della prossima amministrazione americana: siamo appesi alle decisioni che prenderanno a breve gli elettori statunitensi. Ma c’è una seconda faccia della questione sicurezza su cui l’Europa può prendere decisioni autonome.
C’è da costituire un corpo europeo di polizia di frontiera. C’è da varare norme comuni per «ritirare dal mercato» trattandoli come criminali di guerra, i combattenti jihadisti di ritorno in Europa (anche i nostri Stati liberali hanno il diritto/dovere di proteggersi). C’è poi il problema di regolare, con decisioni collettive europee, il rapporto fra l’Europa e le comunità musulmane.
La loro solidarietà, dopo ogni attentato, non serve. Dobbiamo imporre loro , come Unione, una quotidiana azione pedagogica contro il jihadismo e la denuncia di coloro che appaiano in odore di radicalizzazione jihadista. Di sicuro, ne conoscono parecchi. Certo, c’è poi la questione del fondamentalismo, l’ambiente culturale che genera i mostri. Ma qui le norme servono a poco. Servirebbe di più legittimare e aiutare le minoranze musulmane liberali in conflitto con il fondamentalismo, anziché raccontarsi la bugia secondo cui anche i fondamentalisti, purché non prendano le armi, sarebbero dei «moderati».

L’Unione e il suo Stato-guida, la Germania, potrebbero ancora una volta scegliere l’inerzia. Fino alla prossima strage e oltre. Dando agli europei altre dimostrazioni di inutilità. Non è necessario, per contro, gettare il cuore oltre l’ostacolo, immaginare un impossibile «Stato federale». Basterebbe una confederazione flessibile, rispettosa delle autonomie nazionali, ma che sapesse trasformare, almeno in parte, la sicurezza europea in un bene indivisibile.

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