In generale, guardando alla storia del secolo scorso, direi che è più fondata la nostra diffidenza che quella della Cancelliera.
E anche limitandoci a questi ultimi due lustri, non mi pare che la fiducia in Berlino sia a grandi livelli.
La Germania che s'impanca a maestra dell'Europa, è quella che, dopo l'unificazione tedesca, ebbe necessità di sforare varie volte i parametri finanziari (insieme alla Francia, che continua a farlo); è quella che, sempre insieme ai cugini parigini, si è per prima cosa preoccupata che i prestiti europei e mondiali alla Grecia andassero a ripianare i prestiti troppo allegramente concessi ad Atene dalle loro banche, Deutsche in testa ; è quella che viola costantemente le regole sul surplus commerciale.
E, dal punto di vista degli USA, è il paese che, come e più degli altri europei, ha vissuto sotto l'ombrello difensivo americano, risparmiando, tra l'altro, vagonate di miliardi nei decenni.
Trump, ma Obama prima l'aveva fatto ben capire, ha detto col poco garbo che lo distingue, che gli yankee si sono stufati e che gli europei, nei loro già traballanti bilanci pubblici, dovranno seriamente prendere in considerazione la spesa per difendersi.
Capisco che poco ci piaccia ma non la vedo come una grossa ingiustizia. Come il professor Panebianco, sono e resto un filo americano. Non considero Trump una benedizione, ma comprendo il suo obiettivo : America First.
E poi l'alternativa a buoni rapporti con gli USA quale sarebbe ?
Buona Lettura
le lezioni
sbagliate agli usa
di Angelo Panebianco
di Angelo Panebianco
L a rinuncia di Trump e Merkel alla tradizionale
conferenza stampa per la chiusura dei lavori del G7 segnala che non c’è stato
nemmeno un timido tentativo di incollare i cocci. Le relazioni transatlantiche
hanno toccato il punto più basso. È la democrazia: Trump ha rispettato il suo
mandato elettorale, ha dimostrato ai suoi elettori che è capace, almeno a
parole, di onorare le promesse .
In coerenza con il principio-manifesto
«America First» ha detto agli europei che devono spendere di più per la difesa
comune, smetterla di consumare sicurezza a spese dei contribuenti americani, ha
mandato in cavalleria l’accordo sul clima, ha polemizzato con la Germania per
la sua politica commerciale, ha rigettato sull’Europa (la quale,a sua volta, ha
simpaticamente lasciato il cerino acceso in mano all’Italia) il peso di
fronteggiare la questione immigrazione. La posizione comune sul terrorismo è
poco più di un atto dovuto, una specie di minimo sindacale. Lotta comune,
peraltro, che rischia di essere alquanto compromessa se le intelligence dei
vari Paesi, cominciando a dubitare dell’affidabilità americana (dalle
confidenze «riservate» di Trump ai russi al caso Manchester) ridurranno
sensibilmente la disponibilità allo scambio di informazioni. Il governo del
mondo occidentale, al momento, sta attraversando una crisi grave per il fatto
che il leader, la potenza che ha guidato quel mondo ininterrottamente dalla
fine della Seconda guerra mondiale, sta abdicando, ci sta dicendo che gli oneri
della leadership superano ormai gli onori e che occorre rinegoziare tutto.
Ciò nonostante, certe letture eccessivamente
deterministe di quanto sta accadendo dovrebbero essere rifiutate. Non c’è nulla
di già scritto. Non è vero che i cambiamenti in atto da tempo nella
distribuzione del potere mondiale (a danno del mondo occidentale e a beneficio
di potenze extraoccidentali) debbano necessariamente comportare, insieme, una
accelerazione del declino occidentale accompagnata da una fine rapida della
egemonia statunitense. Sono gli uomini e le donne a fare la storia, e non il
contrario. Trump non era «inevitabile» . E non è affatto detto che l’America
non possa, in un tempo ragionevole, fare gli aggiustamenti necessari per
riprendersi quel ruolo di leadership che ora, con Trump (ma questa propensione
si era già manifestata ai tempi di Obama), rifiuta.
La storia ha sempre la capacità di sorprenderci. È
per questo che le letture deterministe degli eventi non funzionano. Per anni e
anni ci siamo sentiti dire, ad esempio, che la globalizzazione era
irreversibile. Nulla di più falso. Il mondo ha conosciuto varie ondate di
globalizzazione (che apparivano sempre ai contemporanei come irreversibili)
seguite da fasi di ripiegamento e di chiusura.
L’idea che possa essere la Cina
a prendere la guida dei processi di globalizzazione al posto di un’America
neo-protezionista e chiusa in se stessa, è , oltre che umoristica, altrettanto
bislacca dell’idea secondo cui la globalizzazione sarebbe irreversibile. La
globalizzazione come l’abbiamo conosciuta parla inglese con accento americano
(così come la precedente ondata, quella ottocentesca, parlava british ), è il
parto di società aperte (quelle occidentali) a lungo guidate dalla più aperta
di tutte. La Cina, con il suo regime chiuso e autoritario, e le sue dure
politiche neo-mercantiliste, può godere dei frutti di una globalizzazione che
ha il motore nelle società aperte occidentali, ma di sicuro non può assumerne
la guida.
Vero è invece che se gli Stati Uniti confermeranno
nei prossimi anni la volontà di abbandonare il ruolo svolto dopo il 1945 si
determineranno conseguenze negative sia sul piano economico che su quello
politico. Ci sarà una frenata della globalizzazione economica, alla lunga con
conseguenze economiche negative per molti Paesi. E ci sarà un aumento, anche
molto forte, del disordine mondiale. Coloro che per decenni, qui da noi, in
Europa, hanno contestato la leadership americana si accorgeranno di quanta
instabilità e quanta insicurezza si accompagnerà al vuoto di potere generato
dalla fine di quella leadership.
Qualcuno dice: è arrivato il momento dell’Europa. Ma
la vittoria di Macron , sbarrando il passo a Le Pen, ha solo permesso alla Ue
di schivare un colpo mortale. I gravi problemi europei sono tutti lì, intatti.
Delle due scuole di pensiero, quella che dice che l’Europa può fare il salto
dell’integrazione politica liberandosi dal legame con gli Stati Uniti, e quella
che pensa che l’integrazione europea necessiti di forti legami transatlantici,
la seconda sembra, alla luce dell’esperienza storica, la più attendibile.
Certamente gli europei, date le loro tante magagne, non possono oggi fare la
lezione agli americani. Devono prima correggere errori e storture. Solo così
conquisteranno il diritto di poter ricordare all’America che tutte le società
aperte, persino quelle dotate della maggiore forza economica e militare, hanno
necessità di fare parte di più ampie «comunità»: aggregati umani fondati sulla
fiducia e nei quali circolano liberamente merci, persone, idee.
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