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venerdì 21 luglio 2017

UNA REPUBBLICA FONDATA SULLA LIBERTA'. IL SOGNO IMPOSSIBILE DEL PROFESSOR PANEBIANCO

Risultati immagini per benigni e la costituzione più bella del mondo


Non avevo dubbi sul fatto che il Professor Panebianco non fosse iscritto al partito dei patiti dalla Carta Costituzionale italiana definita "la più bella del mondo".
Sicuramente sono d'accordo con lui, e se il 4 dicembre votai no alla riforma referendaria di Renzi non fu certo per amore della Costituzione, del bicameralismo perfetto, per non parlare del titolo V (regioni) o, peggio, del CNEL.
Votai no perché non mi piaceva il Senato non abolito ma non eletto, i nuovi criteri di elezione del Capo dello Stato, e non mi piaceva per nulla la legge elettorale, l'Italicum, sottesa a quella riforma. Avrei votato sì a dei pezzi di quella riforma - l'abolizione del CNEL e la ristrutturazione prodiana delle regioni - come proposto dai radicali, ma renzino, che si crede sempre un gran furbo, non volle rischiare. E così si è preso tutta la tranvata in faccia.
Ciò ricordato, è indubbio quello che sottolinea Panebianco : la nostra è una Costituzione non plasmata su principi liberali, che non fanno parte della cultura italica (c'è una cultura politica italiana ? il dubbio è legittimo ), ma sul compromesso tra il partito cattolico, la DC, e quelli di sinistra, socialisti e comunisti.
I risultati si vedono.
Una flat tax al 25% sarebbe un sogno che non vedo come possa essere realizzato in un paese dove l'unica politica economica concepita dalle sinistre è la tassazione "dei ricchi" e dai moderati è il debito...
E comunque, magari è vero che è incostituzionale, come già tuonano i catto sinistresi, invocando il principio di proporzionalità sancito dalla Carta fondamentale...
Andrebbe cambiata quest'ultima, auspica oniricamente il professore.
Buona Lettura



La Costituzione
e le difficili riforme italiane

È sicuro, tanto per fare un esempio, che la convivenza civile ci rimetterebbe se la nostra Repubblica anziché essere fondata sul lavoro fosse fondata sulla libertà?


Un disegno di Beppe Giacobbe

  
Sta suscitando interesse la proposta di una flat tax (o tassa piatta), di una aliquota del 25 per cento uguale per tutti da applicare alle principali imposte (ma con esenzioni per le fasce di reddito più basse), elaborata dall’economista Nicola Rossi e dai suoi collaboratori nell’ambito delle attività dell’Istituto Bruno Leoni di Milano.
La sua adozione, semplificando drasticamente il più complicato e irrazionale sistema fiscale d’Europa, darebbe una frustata così vigorosa alla nostra economia da farla ripartire al galoppo, dopo decenni di alternanza fra stagnazione, recessione e bassa crescita.
Naturalmente, la frustata sarebbe anche ideologica o culturale. Adottare la flat tax secondo le indicazioni del Bruno Leoni significherebbe prendere congedo dalle ideologie socialisteggianti che hanno segnato i secoli Diciannovesimo e Ventesimo. Per i fautori della flat tax la sua adozione renderebbe i cittadini italiani molto più liberi.
È normale che la proposta incontri forti opposizioni. Romano Prodi, che non la condivide affatto, ha pur tuttavia osservato che essa potrebbe diventare il principale argomento del conflitto fra i partiti nelle prossime elezioni (Il Messaggero, 9 luglio). Sul Sole 24 Ore (16 luglio) Enrico De Mita, un avversario ideologico della flat tax, la ritiene incostituzionale. 

Forse De Mita non ha considerato a sufficienza il fatto che la proposta del Bruno Leoni sia stata costruita in modo da tenere conto dei vincoli costituzionali sulla progressività delle imposte. Però è vero che i «principi costituzionali» contenuti nella prima parte della Costituzione del ‘48 non si concilino facilmente con la filosofia che ispira la flat tax. Per la verità, c’è il sospetto che i suddetti principi siano inconciliabili con tante cose. Se si discute di leggi elettorali ecco che salta su qualcuno (e forse ha ragione) che afferma che l’unico sistema elettorale coerente con la Costituzione sia quello proporzionale. Se si discute di università c’è sempre qualcuno pronto a sostenere (anche lui forse ha ragione) che il numero chiuso sia incostituzionale. E, ancora, la difesa dei «diritti acquisiti» di dirigenti e funzionari, brandita dalle magistrature, costituzionale e amministrative, contro i tentativi di riforma della pubblica amministrazione, fa sempre leva sulla Costituzione. Forse persino il Job Act rischierebbe grosso di fronte a un rigoroso «controllo di costituzionalità».




I più maliziosi hanno già capito dove va a parare questo discorso. Forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di intervenire col bisturi sulla prima parte della Costituzione, sui famosi principi.
Dagli anni Ottanta dello scorso secolo (si cominciò allora con la Commissione Bozzi) fino al referendum costituzionale del dicembre scorso, i tanti tentativi — tutti falliti — di riformare la Costituzione hanno sempre puntato a cambiare solo la seconda parte, quella che riguarda l’assetto dei poteri dello Stato. Il ritornello sempre ripetuto era che solo la seconda parte richiedesse profonde modifiche. La prima, invece, era impeccabile, perfetta, non bisognosa di interventi. È stata una convenzione della Repubblica, riverita da tutti, quella secondo cui ogni cosa era negoziabile, e poteva essere oggetto di dispute, tranne la prima parte della Costituzione, lo scrigno che conteneva i gioielli più preziosi, i principi costituzionali per l’appunto. È stata questa la vera ragione per cui le riforme tentate (e fallite) avevano sempre qualcosa di incompiuto, di mal costruito, di posticcio. Non riconoscendo l’intima coerenza che esiste fra la prima parte e la seconda parte della Costituzione, i riformatori finivano per confezionare un abito da Arlecchino: volevano superare l’assemblearismo e rafforzare il ruolo del governo lasciando invariato un testo (la prima parte) molto più coerente con il suddetto assemblearismo che con le progettate riforme. Cambiare la seconda parte lasciando invariata la prima era come tentare di innestare la testa di un cavallo sul corpo di un cane.
I risultati del referendum costituzionale hanno messo fuori gioco per chi sa quante generazioni la possibilità di riformare la seconda parte della Costituzione. Perché allora non cominciamo a discutere della prima?
È sicuro, tanto per fare un esempio, che la convivenza civile ci rimetterebbe se la nostra Repubblica anziché essere fondata sul lavoro fosse fondata sulla libertà?
È sicuro che se il diritto di proprietà, anziché essere relegato fra i cosiddetti «interessi legittimi», fosse riconosciuto fra i diritti fondamentali, quelli su cui poggia la libertà, ce la passeremmo peggio? Le enunciazioni contenute nella prima parte della Costituzione furono il frutto di compromessi fra alcune forze (democristiani, socialisti e comunisti) che, all’epoca, non brillavano per adesione ai principi liberali. Era una Costituzione adatta a qualunque uso. Servì ad ancorare l’Italia al mondo occidentale dopo la vittoria democristiana sui socialcomunisti nelle elezioni del 18 aprile 1948 ma avrebbe potuto diventare — senza bisogno di revisioni — la carta fondamentale di una «democrazia popolare» se i socialcomunisti avessero vinto. Magari, chissà?, sarà la discussione sulla flat tax che, finalmente, costringerà molti a trattare in modo meno acritico i principi costituzionali su cui si regge la Repubblica.

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