Sono sicuro che la riflessione di questo professore della Oxford University susciterà critiche anche accese da parte di molti amici e colleghi, specie penalisti, ancorché la riflessione riguardi prevalentemente i giudici e il loro potere.
Condivideranno, come me, la contestazione del concetto di potere - pressoché assoluto - che molti, troppi, giudici ormai si attribuiscono, convinti che il loro riferimento, da gestire in modo del tutto autonomo, sia la sola Costituzione, da loro liberamente interpretata, e non le leggi dello Stato. Del resto, come osserva bene il professor Luca Enriques, queste ultime sono scritte talmente male (e sono talmente tante, inevitabilmente contraddittorie, aggiungo ) che è stato ed è gioco facile per i giudici inventarsi l'arma della "giurisprudenza creativa" per fare e disfare.
La rivoluzione magistratuale - una sorta di piccolo colpo di stato imbelle - assomiglia a quella luterana : la Costituzione è Dio, e non ci deve essere nessuna intermediazione tra la Suprema Carta e il Giudice (il fedele eletto) , per cui il Parlamento ed il Governo, con la loro verve - ipertrofica, va detto - legislativa vanno neutralizzati.
Come ? Ignorandoli, interpretando a piacimento.
In una Costituzione come la nostra, è evidente che lo sviluppo economico, la libertà di iniziativa economica, siano valori assenti o comunque del tutto minoritari e perdenti rispetto alle parole d'ordine di Uguaglianza, Solidarietà, Ambientalismo care a certo tipo di magistrati che pensano il loro ruolo come politicamente e socialmente attivo (con indirizzo ben preciso).
Anticipo e comprendo l'obiezione : al di la dell'abuso magistratuale, e della conclamata disgrazia della pessima e straripante legislazione, il principio della supremazia della Legge, per evitare abusi di vario tipo, non è rinunciabile.
Posso essere d'accordo, ma come poi realizzare una Nazione efficiente e capace di gestire i rapporti estremamente complessi dell'età moderna ?
Un fatto è certo : così non va.
Buona Lettura
La cultura giuridica dell’Italia va riformata
di Luca Enriques
Tra i tanti fattori che ostacolano la crescita dell’economia
italiana, la giustizia amministrativa finisce regolarmente tra i soliti
sospetti, come ci ha ricordato Gerardo Villanacci ( Corriere della Sera , 4
agosto). Ma, replica Giulio Napolitano (7 agosto), qual è l’alternativa? Far
confluire la giustizia amministrativa in quella ordinaria porterebbe solo a un
allungamento dei tempi e a una despecializzazione dei giudici. In effetti, non
è che i Tar e il Consiglio di Stato sfigurino rispetto alla magistratura
ordinaria: le loro decisioni che incidono sull’iniziativa economica, semplicemente,
fanno più spesso notizia di quelle dei giudici civili.
Se l’amministrazione della giustizia frena l’iniziativa
economica, privata o pubblica, e gli investimenti, non è perché è articolata in
un certo modo, ma perché riflette una cultura giuridica essa stessa di ostacolo
all’impresa e all’innovazione. Più precisamente, il problema è la concezione
che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé.
Il diritto, per il giudice italiano, non è strumento che
serve gli individui e le loro formazioni sociali, per agevolarne le
interazioni, ma ordine superiore al quale la realtà economica deve piegarsi.
Il
ruolo del giudice è quello non di dare una soluzione prevedibile a una
controversia sulle base di regole di interpretazione ben definite (riducendo
l’incentivo stesso a ricorrere ai tribunali), ma, quando va bene, di trovare la
soluzione che nel caso singolo meglio realizza il valore costituzionale della
solidarietà e/o che assicura l’esercizio della proprietà e della libertà di iniziativa
economica entro i confini della loro funzione o utilità sociale.
Le ragioni
dello sviluppo economico, sia pure compresse nella più dignitosa dizione
dell’esigenza di certezza del diritto o in quella più mondana di «buon senso
comune», non hanno alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitamente o
esplicitamente, è alla base delle sentenze.
Ed è ovvio che la lettera della norma non conta: tanto, è
scritta male. Ma è un circolo vizioso: perché Parlamento e governo dovrebbero
sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi margini per
re-interpretarle a proprio piacimento?
Né aiuta la concezione che spesso (e con le dovute
eccezioni) i magistrati italiani, come tanti funzionari pubblici, hanno di sé:
non di soggetti che prestano un servizio ai singoli utenti che si rivolgono
loro, ma di titolari di un potere che la cultura giuridica prevalente, come si
è appena visto, rende quasi assoluto.
Di qui, nella peggiore delle ipotesi, i
casi di corruzione che purtroppo non risparmiano le magistrature ovvero,
secondo un malcostume purtroppo diffuso, l’esercizio della funzione come
dispensa di favori a questa o quella parte, a questo o quell’avvocato.
Si può ovviamente dissentire dall’idea che l’obiettivo della
crescita economica o anche solo l’aspirazione alla certezza del diritto possano
giustificare la riduzione dei margini che un giudice ha per venire incontro, in
piena buona fede, alla parte più debole di un contratto, al consumatore che non
aveva capito che servizi stesse acquistando, e così via. Il punto è che non
sono il riparto della giustizia tra ordinaria e amministrativa, la distinzione
tra interessi legittimi e diritti soggettivi o le tecnicalità dell’ordinamento
giudiziario i veri ostacoli all’iniziativa economica. È piuttosto una cultura
giuridica stratificatasi nel corso di decenni: ritocchi ai codici o
gattopardesche riorganizzazioni non la scalfirebbero.
Lungi da me l’idea di concludere con un proclama per la
rifondazione della cultura giuridica italiana. Ma chi avesse sinceri istinti
riformatori non potrebbe esimersene.
Professore di diritto societario Università di Oxford
Il guaio è che i giudici italiani si sentono investiti di un ruolo moralizzatore della società che invece non è di loro competenza. Tutti ricordiamo cosa disse un componente del pool di mani pulite: "Noi rivolteremo l'Italia come un calzino". Per convincersene, del resto, basta ascoltare per pochi secondi quello che dice nelle interviste lo stesso magistrato, l'ex presidente dell'ANM, Piercamillo Davigo. Dichiarazioni anche condivisibili, ma che sono fuori posto sulla bocca di un magistrato. Detto questo, pur essendo estraneo al mondo dei magistrati, già da un po' di tempo mi giravano nella mente riflessioni identiche a quelle espresse in questo articolo del blog.
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