Come sempre argute e brillanti le divagazioni storiche di Alessandro Fugnoli utilizzate per cercare di rendere più chiare le dinamiche economiche.
Stavolta l'oggetto dell'approfondimento è la "guerra" dei dazi, mossa da Trump essenzialmente contro la Cina, con rimbalzi sull'Europa.
L'offensiva parte dagli USA, e chi muove per primo in genere lo fa convinto di avere in mano gli assi vincenti.
Il problema, osserva Fugnoli, è che, prestando sola attenzione ai fattori esterni, ritenuti "obiettivi", si sottovalutino quelli "interni".
E cita ad esempio casi classici della storia dove proprio il crollo del fronte interno ha comportato la sconfitta : la Francia di Napoleone III nella guerra contro la Prussia, la Germania nella prima guerra mondiale (finì con la sconfitta del Kaiser con le truppe tedesche ancora in territorio francese...), fino ai tempi più recenti, con gli esempi noti del Vietnam e anche dell'Afghanistan (anche se il ritiro dell'Armata Rossa lo vedo più come un' ultima spallata, ché il collasso dell'URSS fu economico, non certo militare).
Nel caso della guerra commerciale tra USA e Cina, Fugnoli rileva come i secondi potranno contare su un fronte interno ben solido, e questo per la semplice ragione che in Cina vige un'autocrazia, se proprio non vogliamo chiamarla dittatura, e le categorie che saranno penalizzate dai dazi americani, se la prenderanno col diavolo statunitense, non certo col proprio governo.
In Occidente non va così, lo sappiamo molto bene.
Fugnoli, come sempre, è ottimista, e conclude che alla fine Trump e il suo collega cinese troveranno un compromesso.
Confidiamo che sia così.
Concludo con una provocazione.
Siamo sicuri che se la spina dorsale dei popoli "liberi", quelli che vivono nelle democrazie,fosse l'attuale, la seconda guerra mondiale sarebbe finita come sappiamo ?
Io qualche dubbio ormai ce l'ho.
Ma la storia non si fa coi se, e spesso è meglio così.
Buona Lettura
IL FRONTE INTERNO
Commercio e tecnologia, vincitori e perdenti
Chi muove guerra a qualcuno è sempre convinto di poter
vincere, altrimenti se ne starebbe calmo e penserebbe semmai a difendersi. Alla
resa dei conti, tuttavia, capita spesso che chi muove guerra finisca sconfitto.
È evidente, in questi casi, la sopravvalutazione delle proprie forze e la
sottovalutazione di quelle dell’avversario.
Se il calcolo delle forze in campo si rivela ex post
frequentemente sbagliato è perché viene effettuato quasi esclusivamente sul
fronte esterno. Se si hanno più uomini, carri armati e aerei del nemico, se si
hanno una tecnica di combattimento migliore e un terreno di scontro favorevole,
allora la vittoria è considerata altamente probabile. Raramente si tiene conto
del fronte interno ed è qui, la maggior parte delle volte, che casca l’asino.
La guerra franco-prussiana del 1870-71, i due conflitti
mondiali, la guerra fredda e la guerra del Vietnam sono stati persi dagli
attaccanti per un calcolo sbagliato sulla tenuta dei fronti interni, il
proprio, quello avversario e quello dei paesi terzi.
Napoleone III mosse guerra alla Germania cavalcando l’ondata
nazionalista, ma alle prime difficoltà il suo fronte interno si sfaldò e la Francia , con la Comune di Parigi, precipitò
nella guerra civile. Nella prima guerra mondiale la Germania sottovalutò il
fronte interno americano, ritenuto isolazionista a oltranza, e fu gravemente indebolita dal pacifismo rivoluzionario
interno. Nella seconda guerra mondiale il fronte interno tedesco tenne fino
all’ultimo, ma la Germania
sottovalutò di nuovo il fronte interno americano e la sua disponibilità a
tornare a combattere in Europa, non comprese l’incredibile tenuta del fronte
interno russo e sopravvalutò la tenuta interna dell’alleato fascista.
La guerra del Vietnam fu persa dall’America attaccante tanto
sul fronte interno quanto per una sottovalutazione della tenuta del fronte
interno nordvietnamita. Il blocco sovietico iniziò a collassare, dopo una lunga
fase di espansione nel Terzo Mondo, quando il consenso interno all’occupazione
dell’Afghanistan venne meno.
Quando Trump ha deciso di muovere i primi passi di una
guerra commerciale alla Cina il tweet di annuncio ha tenuto a presentarla come
destinata a una vittoria facile e sicura. Come esportatori netti hanno da
perdere molto più di noi, ha scritto. Questo, in termini economici, è
assolutamente vero, ma equivale a un’analisi del solo fronte esterno. Quanto al
fronte interno, Trump ha pensato di rafforzare i suoi consensi negli stati
manifatturieri del Midwest e in effetti, stando ai sondaggi, la sua popolarità
è migliorata e ha raggiunto quella di Obama dopo lo stesso numero di mesi alla
Casa Bianca.
Trump potrebbe però avere commesso tre errori di
valutazione, di cui due sui rispettivi fronti interni.
Il primo è che in un conflitto non esce necessariamente
vincitore chi ha meno da perdere ma chi è più disposto a perdere quello che ha,
anche se è tanto. E qui la Cina ,
paese autoritario, parte molto avvantaggiata. Mentri gli importatori americani
di acciaio o tecnologia cinese si sono subito stracciati le vesti all’annuncio
dei dazi di Trump e mentre la
Cnbc ha presentato mercoledì un ribasso di borsa dell’uno per
cento come un drammatico esempio del danno che il protezionismo sta già facendo
all’America, in Cina ne s suna as soc iaz ione di importatori di soia o di
allevatori di maiali si è levata a criticare i dazi cinesi sui prodotti
americani e tutti gli organi di informazione e i blog si sono stretti intorno
al governo.
Il secondo è che la
Cina non è il Giappone degli anni Ottanta e Novanta, un paese
che si lasciò strapazzare commercialmente dagli Stati Uniti nel nome di un’alleanza politica e militare. La Cina è perfettamente
consapevole dalla sua forza, esibisce in tutti i modi la sua volontà di
superare tecnologicamente (e quindi militarmente) gli Stati Uniti e ha un
fronte interno che, quanto meno ufficialmente, è pronto a uno scontro duro.
Il terzo è che la
Cina è stata perfidamente mirata nella sua risposta a Trump. I
dazi sui prodotti agricoli colpiscono stati agricoli tutti trumpiani. I dazi
sulle auto americane non colpiscono Detroit, che alla Cina non fa nessuna
paura, ma Tesla, che a una Cina che vuole diventare rapidamente leader globale
nelle auto elettriche dà fastidio. I dazi sugli aerei, per ora quelli piccoli,
accelerano la corsa cinese a diventare produttore mondiale di aerei accanto a
Boeing e Airbus.
È ancora presto per dire come evolverà il conflitto
commerciale con la Cina ,
ma dai primi segnali appare che Trump e Xi , uomini pragmatici, si tengano
pronti a frenare l’escalation. La
Cina concederà qualcosa sulla propr ietà intel let tuale,
l’America renderà più difficile l’esportazione di tecnologia e qualche dazio
rimarrà qua e là. Meglio che niente per Trump, meglio di una guerra conclamata
per Xi. E in più, per calmare i mercati, Trump accelererà al massimo la
conclusione dei negoziati con Canada e Messico per il nuovo Nafta.
Se così sarà, si tratterà di un successo tattico per gli
Stati Uniti, ma il problema strategico dello squilibrio tra la crescita
tecnologica americana e quella cinese resterà intatto. Da una parte la Cina intende diventare leader
globale nell’intelligenza artificiale entro il 2025 e sta aprendo alla
periferia di Pechino un grande polo interamente dedicato al settore. Sono
evidenti, qui, le implicazioni militari e quelle legate alla sicurezza interna.
E perché sia chiaro chi comanda, il governo acquista quote e il partito
comunista acquisisce seggi nei consigli d’amministrazione delle società
tecnologiche.
Dall’altra parte negli Stati Uniti è in corso un conflitto
civile sempre più aspro (ancora una volta risulta decisivo il fronte interno)
sulla questione dello strapotere di Silicon Valley. La nuova tecnologia
(soprattutto la sua componente pop) è fieramente politicizzata e usa
aggressivamente le sue piattaforme, dai social network alla stampa controllata,
per esercitare influenza politica e fare passare i suoi valori, dalle frontiere
aperte al salario di cittadinanza pagato dalla fiscalità generale (cui ben poco
contribuisce). Le nuove grandi piattaforme commerciali on line, dal canto loro,
assumuno sempre di più un profilo di monopsonio e di monopolio. A questo punto
la nuova tecnologia si ritrova all’improvviso politicamente isolata, viene
attaccata non solo dai tweet quotidiani di Trump ma anche dalla sinistra
radicale, dalla distribuzione grande e piccola e da un numero crescente di piccole imprese che si trovano declassate a
semplici fornitori delle piattaforme commerciali. È facile pensare che, alla
prossima recessione, questo settore sarà al centro degli attacchi populisti di
ogni provenienza (anche di establishment) e verrà passato, regolato e multato
esattamente come capitò alle banche dopo il 2008.
L’Europa, dal canto suo, risulta non pervenuta. La Commissione europea ha
appena stanziato un’elemosina di 50 milioni per sostenere l’intelligenza
artificiale e ha pubblicato 14 paginette di strategia, di cui 12 dedicate a
come combattere l’attacco dell’intelligenza artificiale alle libertà civili.
Macron, avendo capito che dall’Europa non verrà fuori niente, ha commissionato
al matematico macroniano Cédric Villani un piano francese piuttosto articolato
e ci investirà un miliardo e mezzo, una cifra dignitosa che però scompare di fronte
agli stanziamenti cinesi.
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