Buona Lettura
DEMOCRAZIE
L'equivoco giustizialista che penalizza la sinistra italiana
Ci sarà pure una ragione se due riferimenti puramente
spaziali (tra chi siede a destra o a sinistra del presidente dell'assemblea)
riassumono l'intera storia del conflitto democratico, dai primi parlamenti
ottocenteschi sino ad oggi e in tutte le democrazie. La ragione c'è, è seria e
ho cercato di spiegarla in un recente articolo sulla rivista Il Mulino (2012,
n. 4), cui rinvio coloro che fossero interessati a conoscerla. Temo, però,
siano pochi e che la maggior parte dei nostri concittadini sia convinta che
destra e sinistra non vogliano dir nulla oggi, se pure qualcosa hanno voluto
dire in passato: la minestrina è di destra e la pastasciutta di sinistra, i reggicalze
di destra e i collant di sinistra, cantava Giorgio Gaber una ventina d'anni fa,
dando voce al suo disincanto. Un disincanto che non ha fatto che aumentare,
sino a raggiungere l'allarmante disprezzo per la politica e i politici che oggi
contraddistingue il nostro Paese.
Il disincanto ha ragioni comprensibili e comuni a molti
altri Paesi democratici: il crollo di alternative politiche radicali - chi
pensa sia oggi possibile e desiderabile l'eliminazione di una economia di mercato?
- e il rafforzamento dei vincoli internazionali alle politiche perseguibili da
singoli Stati nazionali in un contesto di globalizzazione - la democrazia è
ancora un affare puramente nazionale - hanno di fatto avvicinato molto i
programmi dei partiti con ambizioni di governo, siano essi di destra o di
sinistra. Il disprezzo e la sfiducia - ai livelli impressionanti che le
indagini europee rivelano - sono invece una poco invidiabile caratteristica
italiana, che ha origini antiche ma si manifesta con violenza nel trauma
politico che ha subito il nostro Paese all'inizio degli anni Novanta. Il trauma
che ha portato alla distruzione dei due grandi partiti che avevano governato la
Repubblica nei trent'anni precedenti, il democristiano e il socialista, all'emersione
di due nuovi partiti con forti tratti personalistici e populistici (Lega e
Forza Italia), al cambiamento di nome e pratiche politiche di tutti gli altri:
chi non ricorda le monetine del Raphael contro Craxi o i cappi agitati dai
leghisti in Parlamento durante Mani Pulite? La Seconda Repubblica, i vent'anni
che ci separano da quei tragici avvenimenti, avrebbero potuto attenuare questi
sentimenti antipolitici se si fosse affermato un sistema politico civile,
capace di affrontare i problemi che l'Italia ereditava dal passato, quelli che
tuttora ci trasciniamo appresso. Così non è avvenuto e gli italiani si sono
divisi in due tifoserie scalmanate, pro o contro Berlusconi: dalla tifoseria al
disprezzo dell'avversario, alla delusione cocente, al «sono tutti ladri,
corrotti e incapaci» il passo è breve.
Ma veniamo alla sinistra e alla «rissa» che la sta
attraversando. Come la destra, la sinistra si è sempre divisa in una componente
più radicale e in una più moderata. Quando alternative di sistema erano pensabili,
la divisione era tra riformisti e rivoluzionari, una divisione che in Italia si
è trascinata più a lungo che altrove a seguito della sciagurata spaccatura tra
comunisti e socialisti. Ma anche quando alternative di sistema non sono più
pensabili, la divisione tra una componente più dura e antagonistica e una più
moderata e governativa è destinata a rimanere, e di fatto rimane in gran parte
dei Paesi europei. E questo è sicuramente uno dei motivi della «rissa»: qui è
in gioco l'appoggio che la sinistra deve (per alcuni) o non deve (per altri)
dare al governo Monti. Ma in Italia ad esso si aggiunge, e forse su di esso
prevale, un altro motivo, che deriva dalla storia di antipolitica cui ho prima
fatto cenno: il motivo giustizialista, quello che esprime l'avversione diffusa
per i politici e i potenti, il desiderio che essi siano puniti per le loro
malefatte. Questo è un motivo che poco ha a che fare con la divisione tra
destra e sinistra, il cui conflitto riguarda questioni economiche e sociali:
non c'è alcuna ragione per cui una persona di destra seria debba essere meno
esigente di una persona di sinistra seria sul fatto che le leggi vadano
applicate a tutti, ricchi e poveri, umili e potenti. I principi basilari dello
Stato di diritto dovrebbero essere comuni a entrambe.
Ma la storia conta. Conta soprattutto Berlusconi. L'aver
fatto causa comune con tutti i suoi avversari, l'aver accettato nel campo
antiberlusconiano chi era contro per i motivi più diversi, il non aver
affrontato seriamente il problema della giustizia, ha creato una miscela
difficilmente gestibile da parte di chi, come Bersani, vorrebbe avviare la
sinistra verso una piattaforma moderata ed europea. Il Pd è scoperto sul fronte
sinistro, in senso proprio, perché la situazione europea e l'agenda Monti non
offrono speranze di crescita nel breve periodo e provocano serie sofferenze
sociali. E perché non è riuscito a convincere buona parte del suo popolo che
tali sofferenze sarebbero maggiori se si seguissero strategie «più di
sinistra». È scoperto sul fronte giustizialista perché si schiera con il
presidente della Repubblica nel conflitto tra Quirinale e Procura di Palermo.
Ed è scoperto sul fronte antipolitico perché non è riuscito a dare, ai critici
della politica, un'immagine che lo differenzi nettamente dagli altri partiti,
quell'immagine di «diversità» che ancora Berlinguer poteva con qualche ragione
sostenere.
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