IL PENSIERO DEI PIU' |
La questione carceraria è delicata in quanto impopolare. Per tanta gente, temo la maggioranza, vale la convinzione : peggio per loro, se lo meritano. La disumanità delle carceri è cosa che poco appassiona , anzi. Poi certo, se la spieghi un po' più da vicino, qualcuno ci riflette un attimo di più e quindi un po' rimane impressionato nel leggere che oltre il 40% dei detenuti non sono stati giudicati colpevoli. Tali si è dopo una condanna definitiva. Solo allora, per la nostra Costituzione - che tanto piace quando a invocarla sono gli amici - le porte della prigione si possono aprire. NON prima. Certo, sono previsti dal codice casi eccezionali, le esigenze "cautelari". La previsione di questi casi è assolutamente legittima e opportuna. E' il loro ABUSO che non lo è.
Questo abuso, così come la reticenza ad usare sistemi alternativi alla sanzione carceraria, la mancanza di una riforma della giustizia che tutti dicono di volere ma che poi mai si riesce a fare (sembra il Porcellum...) , produce la condizione sub umana che solo Pannella e i radicali denunciano.
Sulla questione, riporto due interventi letti oggi e che , a mio avviso, toccano i punti più importanti della delicatissima questione. Il primo è di Mattia Feltri, viglio di Vittorio, l'altro è di Davide Giacalone
Buona Lettura
urlo disperato di Pannella per gli ultimi
MATTIA FELTRI
Pochi di noi sono scampati al sospetto che gli scioperi
della fame e della sete di Marco Pannella servano al dimostrante per mettersi
al centro delle sue stesse dimostrazioni. Ancora di meno sono scampati alla
sensazione che le periodiche, reiterate e accavallate proteste siano
soprattutto stucchevoli e lagnose, elencate quotidianamente con implacabile
costanza dalla Radio radicale; che riguardino il leader o i suoi, in solitaria
o a staffetta.
Sono sospetti e sensazioni che andrebbero messi alla prova -
almeno oggi - delle disastrose condizioni di salute di Pannella, dopo sette
giorni di astensione totale dal cibo e dall’acqua. Inoltre sono sospetti e
sensazioni che avrebbero un senso se si parlasse di rimpiazzo dei giudici
costituzionali o di riforma delle legge elettorale, ma non ne hanno alcuno
poiché si parla cristianamente e laicamente dei diritti degli ultimi, i
carcerati.
Anche in questo caso sembra prevalere nella discussione il
«chi» o il «come» piuttosto che il «che cosa». Un erroraccio. Le questioni sono
tali, e hanno una dignità o un rilievo indipendentemente da chi o come le
sollevi. E se non fosse per Pannella, per il suo coraggio o cocciutaggine o
persino vanità, chiamatela come volete, ci avvieremmo verso Natale a fauci
spalancate, con la preoccupazione residua dello smaltimento del cotechino a
fine feste. In quello stomaco così accogliente, invece e per fortuna, ci arriva
il cazzotto di Pannella, a dieci anni esatti dalla visita di Giovanni Paolo II
al Parlamento italiano a domandare agli eletti un gesto di carità verso i
detenuti. Dieci anni dopo siamo alle solite.
Il Libro Verde sull’applicazione della normativa Ue sulla
giustizia penale elenca i dati vergognosi. La popolazione carceraria oggi è di
circa settantamila detenuti; di questi, il 43/44 per cento sono in attesa di
giudizio. Significa che oggi abbiamo in galera trentamila persone tecnicamente
innocenti. Pare poco? La media europea è del 28 per cento. Quella tedesca - Paese
con una certa tradizione di severità - è del 15 per cento. Ci si può divertire
anche coi numeri sul sovraffollamento. In Italia, la densità penitenziaria in
rapporto con la capacità ufficiale è del 153 per cento; traduzione: ogni due
carcerati ce n’è uno di troppo. Peggio di noi, in Europa, c’è soltanto la
Bulgaria col 155 per cento, mentre la media continentale è del 107 per cento e
in Germania dell’89. Coltivare la pretesa costituzionale (a proposito della
Costituzione più bella del mondo) della rieducazione del reo in celle dove ci
si mette i piedi in testa, dove si dorme uno sopra l’altro, si va al bagno en
plein air, è effettivamente un bella pretesa.
Alla disperata richiesta pannelliana dell’amnistia si
replica ancora oggi che sarebbe meglio costruire nuove prigioni, sebbene non le
si costruiscano da mai: quelle vecchie si inzeppano sempre più, fino al primo
abborracciato provvedimento di clemenza e la storia va avanti da decenni, in
condizioni che si definiscono disumane ormai in automatico, che si fa fatica a
iscrivere alla voce che gli compete, la voce «tortura».
Il nostro Grande Capo radicale ci ha ricordato l’obbrobrio,
ed è un risultato pagato caro ma raggiunto. Almeno qualcuno ne parla.
E sarebbe
davvero ora - che bella speranza natalizia - di ragionare seriamente sui reati,
se tutti debbano davvero comportare la detenzione in carcere, se qualcuno non
sia espiabile ai domiciliari, su quali pene alternative vogliano introdurre, su
quali depenalizzazioni siano percorribili. Un Paese che si pretende civile non
ha il diritto di essere fuorilegge e tantomeno di eludere una questione
soltanto perché è poco popolare. Che ci abbia obbligato a scriverlo, è un
merito di Pannella scolpito nel marmo.
Morte e amnistia
Marco Pannella è tornato a gettare la vita, anzi, la propria
morte, dentro al piatto vuoto delle chiacchiere politicanti. Conosce a menadito
l’arte della politica e sa bene che comporta una dose massiccia di cinismo, cui
non si sottrae. Sa, dunque, che la sua decisione può essere commentata sia come
ricatto, come sceneggiata, che come ostinazione, prima o dopo, a incontrare la
fine nel corso di una battaglia. Non solo l’ha messa nel conto, ma forse ci
conta. Spero che non accada, ma non per altruismo, bensì per egoismo, giacché, in
quel caso, resteremmo noi a morire di sete e di fame, non fisicamente e non per
volontaria privazione, ma civilmente e per generale imposizione, che, oramai,
la politica non ha più nulla di commestibile, né è più deglutibile.
Accanto al cinismo, che lo rende imperturbabile innanzi al
pericolo più immediato, Pannella incarna un disperato candore. I suoi scioperi
si sommano nel tempo, tanto che taluni fanno confusione su quale sia la causa
del giorno, la battaglia per la quale s’incammina ancora verso l’ipotetico non
ritorno, ed è questa la cosa che mi colpisce di più: in un’Italia che ha
cancellato la malagiustizia dall’agenda politica, che l’ha soppressa anche
nella cronaca, con un mondo politico oramai appecoronato al più bieco
giustizialismo, diffuso come sifilide fascistoide per ogni dove, fra i
legittimi eredi del fascismo come fra gli eredi della sinistra comunista, che
fuori dai confini del comunismo realizzato fu garantista, accompagnata, quella
politica, da un giornalismo che ha traslocato nelle pagine nobili le mentalità
ignobili del rotocalchismo da parrucchiere, nel mentre il Parlamento si occupa
di giustizia solo per varare un immondo riordino dell’ordinamento forense, che
chiameremmo controriforma se solo qualcuno si fosse prodotto in una riforma,
negli stessi giorni in cui il centro destra attacca il governo Monti (un attimo
prima di offrire a Mario Monti la guida del centro destra medesimo) perché non
rispetta i patti sulla giustizia, intendendosi per tali non una radicale
riforma che restituisca diritto all’Italia, ma una leggiucola che cambi, in
modo inutile e sbagliato, le regole delle intercettazioni telefoniche, quando i
magistrati che imbastiscono inchieste farlocche vanno a sostenere l’accusa
presso la cassazione televisiva, in un’Italia in cui tutti si sono scordati che
senza giustizia non c’è mercato, ma solo mercimonio, Pannella che fa? prova a
crepare per la sorte dei carcerati. Prova a far diventare pietra il proprio
sangue e vetro il proprio piscio per denunciare il girone infernale delle
carceri italiane, laddove la gran parte dei nostri concittadini sono pronti a
rantolare sbavando che al Tizio o al Caio, nonché a tutta intera la classe
dirigente, null’altro si può augurare se non la galera. Ovviamente senza
processo e sulla base della sola accusa, perché questo è il grado d’inciviltà
cui il popolo bue è stato condotto per mano, a cura di qualche vacca sacra, con
o senza toga.
Chiedo alla sorte un privilegio: scrivo la sera di lunedì e
conto che la mattina di martedì possa giungere a Marco Pannella il mio
dissenso: sono contrario all’amnistia. O, meglio, sono favorevole. Sappiamo
tutti benissimo che solo l’amnistia potrà evitare il crollo definitivo della
giustizia italiana, e chi lo nega non è neanche un ipocrita, ma un falso nel midollo.
Ma l’amnistia dobbiamo farla per salvare una seria riforma dallo stramazzare
sotto al peso di decenni senza diritto, senza diritti e senza giustizia. Non
dobbiamo farla per far sfiatare la pentola a pressione carceraria. Anche
Pannella sa bene che se ci limitassimo a quello non faremmo altro che rinviare
il problema, inevitabilmente destinato a ripresentarsi tale e quale. E, del
resto, ciò è esattamente quanto scrissi quando un Parlamento di bugiardi
sostenne di varare l’indulto per rendere omaggio alle parole di un pontefice.
Previsione azzeccata. E non ci voleva niente.
L’amnistia è un provvedimento d’enorme ingiustizia, perché
lascia senza giustizia i colpevoli come gli innocenti. E’ un prezzo altissimo,
che può essere pagato solo innanzi a un valore più alto. Quindi dovremo
pagarlo, per onorare il diritto e rimettere la giustizia in cammino. Non
possiamo pagarlo lasciandola violentata e boccheggiante, preda delle bassezze
corporative e in balia delle cordate corruttive. Chiedendo l’amnistia qui, ora
e in queste condizioni Pannella sostiene quel che non condivido. Né mi fa
cambiare opinione l’agitarsi della sua morte. E nel mentre lo scrivo, nel
mentre spero che gli giunga il rispetto e l’ossequio di tale dissenso, penso
alla disgraziata Italia in cui possiamo, anzi dobbiamo litigare fra noi, che
della giustizia abbiamo un’idea la cui altezza la rende irraggiungibile dai
tanti guitti che s’agitano per sé, con sé e per avere a sé.
Non gli chiedo di smettere, perché tanto ha già deciso
(qualsiasi cosa abbia deciso) e neanche Giove gli farebbe cambiare idea.
Testone egocentrico ed esasperante. Guarda a cosa s’è ridotta la politica
italiana e non gettare una perla nella palta.
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