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venerdì 24 maggio 2013

"IL DIRITTO E' LA VENDETTA CHE RINUNCIA"


Michele Ainis è un noto costituzionalista. Ha scritto più di 100 saggi sul tema, è docente universitario di Istitutizoni di Diritto Pubblico a Roma, è apprezzato opinionista sul tema per il Corriere della Sera e per l'Espresso. La presentazione è necessaria per spiegare ai non incliti e agli ultrà che l'articolo di seguito riportato NON è scritto da uno di quei prezzolati del Cavaliere, ma piuttosto da uno che se parla di Costituzione, ne sa qualcosa più di Benigni.
A me piace come scrive, chiaro e incisivo. Non sempre sono d'accordo con lui, essendo io uno di quelli persuasi che la Carta Costituzionale è stata pur sempre il risultato dello sforzo di uomini che avevano idee politiche ben precise, figli del loro tempo, condizionati sia dal tragico passato - il fascismo, la guerra, compresa quella civile dal 1943 - che da un pericoloso presente (il mondo diviso in due blocchi).
Insomma, alla Costituzione più bella del mondo io non credo. Ci sono cose buone, altre meno. C'è da dire che quando ci si è messa mano, per modificare qualcosa, finora si sono fatti più danni che cose buone, penso in particolare alla nefasta modifica del titolo quinto.
Premesso questo, venendo ai temi più d'attualità, anche Ainis si è occupato delle due vicende di diritto che hanno maggiormente caratterizzato la settimana politica : l'ineleggibilità di Berlusconi, in applicazione di una legge del 1957 (evidentemente ignorata fino ad oggi...) e la regolamentazione giuridica delle forme associative per partecipare alle elezioni del Paese.
Due sonori schiaffi al buon senso (come un altro è quello della Procura di Palermo che chiama a testimoniare il Presidente della Repubblica...evidente ripicca per lo sganassone subito sulla querelle intercettazioni ).
 Insomma, anche il bravo Ainis sembra "fattosi persuaso" - così direbbe il buon Montalbano - che i partiti, e non solo aggiungo io, pensino che il diritto sia una legittima arma politica per espellere dal campo avversari scomodi perché troppo forti.
Oh, se non lo diciamo più solo noi liberali garantisti forse sarà vero...
Buona Lettura

VOTO E VETO

Ineleggibilità e statuto dei partiti
Il diritto non è un corpo contundente

Buone nuove: la politica ha scoperto l'esistenza del diritto. Cattive nuove: i politici stanno trasformando il diritto in un rovescio, anzi in un manrovescio sul faccione dei propri avversari. C'è difatti un elemento unificante nella duplice querelle che investe Berlusconi e il Movimento 5 Stelle.
C'è il tentativo di cancellarli entrambi dalla scena elettorale, oggi e per tutti i secoli a venire. E c'è in comune lo strumento cui s'affida quest'impresa: non il voto bensì il veto, un divieto scolpito sulle tavole di bronzo della legge, insormontabile come le sbarre d'una cella. Ma è ineleggibile Silvio Berlusconi? In astratto, può anche darsi.

Illustr. di Chiara DattolaIllustr. di Chiara Dattola
Dal 1957 abbiamo in circolo una disciplina normativa che proibisce l'elezione di chi sia titolare di concessioni (come le frequenze televisive) da parte dello Stato. La ragione suona evidente anche a un bambino: disinnescare i conflitti d'interesse. E su tali faccende ci andava pesante la stessa Assemblea costituente; tanto che il 6 febbraio 1947 annullò l'elezione dell'ingegnere Guglielmo Visocchi, perché beneficiava di concessioni idriche e minerarie. Ma sta di fatto che negli ultimi vent'anni Berlusconi è stato eletto in Parlamento per 6 volte, diventando per 4 volte presidente del Consiglio. Sicché sulla ragione sostanziale ha prevalso un'interpretazione formale, o se si vuole formalistica: quella che dichiara ineleggibile il gestore (Confalonieri) e non il proprietario. Così decise la Giunta delle elezioni nel 1994, quando governava il centrodestra; così ribadì la stessa Giunta nel 1996, con una maggioranza di centrosinistra. Non che il risultato elettorale mondi ogni peccato. Dopotutto nel 1932 Hitler fu votato da 32 milioni di tedeschi, e le regole servono proprio a questo, a impedire la prepotenza dei più sui meno. Però c'è un che di fanciullesco nella pretesa di riscrivere il passato, usando la legge come una macchina del tempo. Non ne è immune la sinistra, ma neppure la destra: ieri con l'abbuffata dei condoni, oggi con la restituzione dell'Imu pagata nel 2012, magari domani con il rimborso dell'«oro alla Patria» donato dagli italiani nel 1935. E c'è soprattutto il disprezzo per la certezza del diritto, l'ignoranza per lo specifico statuto del diritto parlamentare. Dove ogni norma non è che la somma delle sue precedenti applicazioni, delle sue interpretazioni divenute vincolanti. Dicono i 5 Stelle: su Berlusconi fin qui avete sbagliato, perché mai dovremmo perseverare nell'errore? Risposta: perché nel diritto parlamentare ogni errore reiterato si trasforma in verità.
Sennonché, girando il tavolo, il carnefice indossa i panni della vittima. Questa volta è merito del disegno di legge Finocchiaro-Zanda - poi ritirato -, sorretto dalla nobile intenzione di forgiare una disciplina sui partiti, dopo 65 anni di silenzio. Come? Obbligandoli a rispettare taluni canoni di democrazia interna, di trascriverli in uno statuto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, infine vietando le urne a chi non osservi questo doppio requisito. E i 5 Stelle, che formano un movimento anziché un partito? Kaputt. Ma kaputt anche la Costituzione, che prescrive (peraltro invano) la registrazione per i sindacati, non per i partiti. E kaputt per il buon senso, dato che non c'è bisogno di sbarrare il Parlamento alle forze politiche, per difendere i diritti dei loro militanti. Basta fissarli in una legge che ciascun giudice potrà far applicare, come avviene per le minoranze linguistiche dal 1999. E in secondo luogo basta la leva del finanziamento pubblico: niente diritti, niente quattrini.
Ma evidentemente il buon senso è un buon gusto perduto, come le ricette della nonna. Un tempo nemmeno il bandito politico veniva messo al bando, pur ricorrendone - talvolta - i presupposti. E infatti, benché la XII disposizione finale della Costituzione proibisca la riorganizzazione del Partito fascista, nessuno pensò mai di sciogliere il Movimento sociale, che pure celebrava Mussolini nel suo Pantheon degli Dei. Il Partito monarchico fu attivo (e indisturbato) dal 1946 al 1961, nonostante l'art. 139 della Costituzione, che vieta di cancellare la Repubblica. In tempi più recenti, non è stato mai torto un capello alla Lega Nord, i cui orizzonti secessionisti contrastano con l'indivisibilità dello Stato (art. 5). Perché il diritto è la vendetta che rinuncia, dicevano Adorno e Horkheimer. Ahimè, sbagliando: ormai in Italia la politica ha trasformato anche il diritto in un corpo contundente.

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