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lunedì 29 luglio 2013

UN PAESE FRAGILE E IL PESO INSOPPORTABILE DI UNA SENTENZA


Ho cercato, tra i quotidiani che scorro ogni giorno, se ci fossero commenti degli opinionisti che più stimo , alla vigilia di una sentenza, quella che la Corte di Cassazione dovrebbe pronunciare domani (c'è anche la possibilità di un rinvio, anche se pare improbabile) , che , qualunque sia il suo verdetto, sarà storica (specialmente se sarà di condanna. ma anche di assoluzione sarebbe dirompente).
Non ne ho trovati : Panebianco, Galli della Loggia, Giacalone tacciono (quest'ultimo in verità la sua l'ha detta , e chiaramente, già da diverso tempo ) , e così Battista, Polito e altri. Forse qualcuno di loro ne scriverà domani, o si pronunceranno ex post.
Sulla Stampa c'era l'editoriale di Marcello Sorgi, che non è assolutamente tra i miei prediletti, ma che mi capita di leggere e stavolta, devo dire, mi sono scoperto a condividere più di un passaggio.
In buona sostanza, l'opinionista del quotidiano torinese evidenzia che questa sentenza giunge in un momento assai delicato, di profonda fragilità sia politica che istituzionale che economica del nostro paese, che per questo motivo non esita a definire "Il peggiore".
Credo non abbia torto.
Nessuno, sufficientemente pensante e intellettualmente onesto, può ignorare l'impatto politico devastante che avrà una eventuale sentenza di condanna. E c'è qualcosa di male in questo, comunque la si pensi.
Non si doveva arrivare a questo punto. Giacalone scrisse tempo fa : i problemi, a ignorarli, s'incattiviscono.
Il pensiero di Sorgi avalla quel pensiero. 
Buona Lettura

Il momento peggiore



La sentenza della Cassazione su Berlusconi non poteva cadere in un momento peggiore. È inutile nasconderlo: basta solo dare un’occhiata all’imputato, al suo partito, al governo di cui è uno dei principali azionisti, e all’alleato-avversario Pd.

Berlusconi è disperato: non hanno alcuna importanza le cose che ha detto e dice alla vigilia, la spavalderia con cui annuncia che se condannato non fuggirà e andrà in carcere, le rassicurazioni che in pubblico o in privato dispensa ai dirigenti del suo partito e delle sue aziende, oltre che ai familiari, preoccupati più di lui. La verità è che l’uomo sa che stavolta la condanna, possibile e considerata addirittura certa da uno dei suoi avvocati, Nicolò Ghedini, oltre che definitiva sarebbe letale per lui. Hai voglia a dire che continuerebbe lo stesso a fare politica anche fuori dal Parlamento, che organizzerebbe una grande campagna contro la magistratura politicizzata, che dal carcere griderebbe contro il regime che lo ha privato del diritto di continuare a rappresentare e a guidare i nove milioni di italiani che lo hanno votato e credono in lui. Un carcerato è un carcerato, seppure agli arresti domiciliari, com’è scontato che toccherebbe a un detenuto quasi ottantenne. Privato della reggia di Arcore, del teatrino di Palazzo Grazioli, della Sardegna di Villa Certosa, delle telefonate a «Mattino 5», del Milan e di Milanello, oltre che degli stravaganti passatempi con cui un tycoon ricco e anziano come lui cerca di sconfiggere la noia, il Cavaliere, c’è da scommetterci, andrebbe in depressione. Senza la libertà, lui che ha fatto della libertà assoluta la sua bandiera, per la prima volta si sentirebbe davvero sconfitto. Inoltre, a uno che in tutta la sua vita ha fatto dell’azzardo la sua regola - e negli ultimi vent’anni, grazie a questa anomala forma di talento, s’è impadronito di un Paese -, cadere a causa di una piccola frode, certo non la più grave di quelle che gli sono state contestate finora, rode. Altro se gli rode.

Se questo è il dramma del Cavaliere - un dramma che grazie a lui trascolora nella commedia, e ogni tanto nella farsa - quella del Pdl è una tragedia vera e propria. Nessuno, dicasi nessuno, dei dirigenti del fu maggior partito del Paese, è in grado di prevedere cosa sarebbe di lui e del centrodestra nel caso infausto della condanna del leader. Non si tratterebbe di scegliere la linea dura della Santanchè o quella morbida di Cicchitto, né di andare a manifestare davanti al «Palazzaccio» romano della Cassazione come avevano fatto l’altra volta di fronte al Tribunale di Milano. Se il centrodestra è, com’è stato finora, Berlusconi, senza Berlusconi il centrodestra non c’è più. I primi a saperlo sono loro.

Quanto al governo sorretto per metà da Berlusconi e dal Pdl in questo stato, e per l’altra metà da un Pd in piena febbre precongressuale, con l’apporto minimo di Scelta civica (un centro impegnato soprattutto, a dispetto delle proprie esigue dimensioni, in un’intensa attività frazionistica), non si può dire che goda di buona salute, né che sia in grado di onorare realmente la promessa a restare in vita, costi quel che costi, anche dopo l’eventuale condanna di Berlusconi. Sebbene tutti gli alleati della maggioranza si siano coralmente impegnati in questo senso, con il beneplacito del Capo dello Stato, non è un mistero che il maggior peso di un così gravoso impegno poggi sulle spalle del Pd. Ed è per questo che il presidente del consiglio Enrico Letta aveva chiesto udienza, prima ai gruppi parlamentari, e poi alla direzione del suo partito, per ottenerne l’assicurazione che anche nella prospettiva più infausta - la condanna, appunto di Berlusconi, e le reazioni prevedibilmente smodate del Pdl - sarebbero stati in grado di sterilizzare il futuro del governo dalla contingenza degli eventi.
Per inciso, era il minimo che Letta potesse fare, dopo la svolta del caso Alfano e le difficoltà di ricondurre alla ragione un partito che pensava di far dimettere il ministro dell’Interno senza aprire una crisi. Malgrado ciò, l’esito di questi incontri, nei quali Letta ha parlato chiarissimo - fin troppo secondo alcuni, che non hanno gradito il tono secco del premier -, è stato assai modesto, quando non contrastato o addirittura opposto rispetto agli obiettivi che Letta s’era dato. Di votare un testo, un ordine del giorno, o anche solo un auspicio di sopravvivenza del governo, il Pd, a qualsiasi livello, non ha voluto saperne. E in direzione, invece di parlare di questo, s’è addirittura consumata una rissa sulle regole per il congresso: pensa un po’.

Perchè il partito di Epifani sia ridotto così, e si rifiuti ostinatamente di prendere atto di dover sopportare la maggiore responsabilità di quel che potrebbe accadere, purtroppo non è difficile da capire, ed anzi è presto detto. Nel Pd, dall’ultimo degli iscritti, fin quasi, forse, al segretario, tutti non vogliono saperne di dover salvare Berlusconi. Piuttosto la morte: c’è chi lo dice a voce alta e chi si trattiene, mordendosi la lingua. Ma il pensiero di ognuno di loro è lo stesso: lo abbiamo già salvato una prima volta nel 2011, quand’era finito e se fossimo andati a votare, al posto di fare il governo Monti, avremmo vinto. Lo abbiamo salvato la seconda, piegandoci a fare il governo di larghe intese con lui. Stavolta crepi, e non se ne parli più. Che a soccombere, con ogni probabilità, sarebbe il Paese, al Pd, militanti, parlamentari e dirigenti, non importa. Se arriverà la condanna e saranno chiamati a votare in Parlamento la decadenza di Berlusconi dal Senato, voteranno per farlo decadere, e poi accada quel che deve accadere. 

In sintesi, il quadro è questo: la rete di sicurezza non esiste, probabilmente era un’illusione pensare che potesse essere predisposta. Non solo il destino di Berlusconi, ma quello del governo e della legislatura è dunque nelle mani della sezione estiva della Cassazione, di fronte a cui domani si presenterà il nutrito collegio di difesa del Cavaliere. Fare pronostici, al punto in cui siamo, è impossibile, oltre che inutile. Gli storici ricordano che anche in un altro frangente drammatico, l’incerto referendum del 1946, toccò alla Suprema Corte proclamare il risultato che segnò una svolta storica, con la cacciata del re e la scelta della forma repubblicana. Volesse il Cielo che, dopo averne legittimato la nascita, i giudici del Palazzaccio in quest’occasione non si trovino a certificare la fine della nostra, assai malandata, Seconda Repubblica.

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