Il primo lo trovate sul link http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/05/expo-2015-nessuna-tangentopoli-storie.html
Il secondo continuando a leggere
Expo-nendo il peggio
La vicenda dell’Expo conferma la forsennata propensione a farsi del male. Le cronache e la giustizia possono accusare e poi stabilire le responsabilità individuali, ma quello che mettiamo in scena, e in mondovisione, è un fallimento collettivo. Che va scandagliato senza riserve e che ha tre punti ineludibili, da cui ripartire per salvare l’evento. Nonché l’Italia. Intanto sono evidenti due cose: la prima è che sapremo chi è colpevole e chi è innocente alcuni anni dopo la fine dell’Expo; la seconda è che una cosa sola conterà, l’anno prossimo, ovvero la riuscita o il disastro.1. Il primo punto ineludibile è questo: dove la mano pubblica intermedia quattrini si finisce con il parlare di tangenti e processi penali. Ciò dipende da due cose: a. nessuno scommette veramente sul valore collettivo dell’onestà e della riuscita; b. nessuno risponde mai di un’intera realizzazione, ma si frammentano competenze e responsabilità dietro cui, nel migliore dei casi, si nascondono ritardi e inadempienze. Sono due malattie mortali. Nel caso Expo già hanno provocato l’abbandono della metà di progetti e realizzazioni.
Il nostro sistema d’investimento pubblico è interamente disfunzionale, cosa che sottolineiamo da anni e che ricordammo anche a proposito delle inchieste sulla protezione civile: abbiamo regole che non funzionano, sicché proviamo ad ottenere risultati derogando all’ultimo minuto, solo che, in quel modo, si sommano concentrazione del potere e controlli in itinere, con il risultato di distruggere la notte quel che si costruisce di giorno. Lo ha ricordato anche Piero Bassetti, ieri, ed ha ragione. L’Expo è nato male, in un contrasto fra Regione Lombardia e Comune di Milano che il governo non ha saputo domare. Il succedersi dei commissari ha complicato le cose. Dobbiamo deciderci ad accettare che se un soggetto, possibilmente eletto, ha dei poteri deve essere in grado di esercitarli. Poi sarà giudicato, dagli elettori o dai giudici, a seconda dei casi. Invece pretendiamo di compartecipare e controllare, che si traduce in inzuppare e intralciare. Propiziando il peggio: costi certi e opere a mozziconi.
Da scandali simili, si dice, trarranno forza elettorale gli ortotteri. E’ vero, ed è anche ragionevole, visto che la voglia di mandare tutti a stendere cresce prepotente. Ma è anche vero l’opposto: nel merito le truppe frinenti, dal referendum sull’acqua a tutto, propongono proprio l’intermediazione pubblica e politica nell’amministrazione delle cose. E invece si dovrebbe ridurla al minimo. E anche qualche cosa meno.
2. L’Expo, adesso, non ha bisogno di riconciliarsi con Matteo Renzi, in visita la settimana prossima, o con Roberto Maroni e Giuliano Pisapia, dichiaranti apprezzamento per chi lo dirige. Deve riconciliarsi con l’Italia. Deve prendere atto che non sono in ritardo solo le opere edilizie (non si parla che di quelle, non si parla che di appalti, cosa volevate che succedesse?!), ma anche il coinvolgimento dell’Italia produttiva e innovativa nella filiera vasta dell’alimentazione. A questa ricca realtà di imprese medie e piccole si è offerto, fin qui, solo e soltanto di rivolgersi a Padiglione Italia per comprare spazi espositivi. Non è un errore, è un’infamia. O Expo serve a valorizzare questa Italia o è uno spreco. Ed è in ritardo pazzesco il decentramento di incontri e attività, perché chi verrà in Italia, a partire dall’estate 2015, è anche un turista. Se pensano di tenerlo nella cittadella dell’Expo non sono illusi, sono scemi.
3. Gli scandali succedono anche perché con quelle strutture, a nomina politica e alimentate a quattrini pubblici, prende contatto una filiera imprenditoriale che campa di appalti aggiustati. Dio li fa e poi li accoppia. Non è che il pubblico è malato e il privato è sano, o viceversa, è che i malati di ambo le parti s’associano a spese collettive. La dannazione d’Italia è che l’altra parte del Paese, che a turno è sempre maggioritaria, non ha rappresentanza politica, sindacale, culturale o editoriale. E non ce l’ha perché le uniche cose che contano e che smuovono le budella sono i racconti autodistruttivi e autodenigranti, nonché le difese corporative e l’affarismo dei falliti. Cooperative bianche e rosse comprese. Finché questa sarà la musica la marcia non potrà che essere funebre.
Nessuno crede che competenza e rettitudine paghino anche perché nessuno le racconta e nessuno le sta a sentire. La ribalta è sempre della merda, ammucciando nelle retrovie i fiori che pur da quella possono nascere. I risultati si vedono. E si sentono.
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