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sabato 10 maggio 2014

IL BUON GOVERNO EINAUDIANO, BEN DIVERSO DALLE PROPOSTE OGGI DI MODA

 
Nella pagina delle opinioni del Corriere ho trovato questo bell'intervento del Prof.  Paolo SIlvestri, docente di filosofia dell'Università di Torino. Io sono un po' diffidente nei confronti dei filososi, probabilmente per una certa perplessità per la loro materia, fin da tempi del liceo (amavo, e amo, la Storia). Ho sempre pensato ad un eccesso di astrazione nelle loro riflessioni ed analisi.
Quella di questo contributo mi sembra invece piacevolmente concreta, chiara, ancorché purtroppo lontana dall'essere realizzabile in un paese come il nostro, dove quei difetti - paternalismo, burocrazia, prevalenza del pubblico - fanno parte del genoma italico.
Peccato.

Einaudi, un’eredità attuale e scomoda
 
In questi ultimi anni, alcune delle più alte cariche dello Stato hanno avvertito il bisogno di un richiamo all’eredità di Luigi Einaudi. Un’eredità complessa, e forse più scomoda di quanto sembri, che sintetizzerei nel compito che Einaudi affidava ai liberali di ogni generazione: custodire quel «bene supremo che è la libertà dell’uomo», in vista di un «ideale» buon governo, nella consapevolezza di una tensione incolmabile con il reale e di una ricerca che, dunque, è sempre aperta. Ma se «buon governo» è ormai uno slogan abusato, qual è il senso più autentico del buon governo einaudiano?
Oggi come allora, è sempre dopo una «crisi»che la ricerca ricomincia. Per Einaudi essa emergeva dall’urgenza di ricostruire le istituzioni liberali distrutte dalla prima guerra mondiale, dal fascismo e dalla crisi economica del 1929. Ma oggi più che mai è vera la sua tesi secondo cui il problema economico non può risolversi solo con mezzi economici, essendo parte di un più ampio assetto «spirituale e morale». Il liberismo sostenuto da Luigi Einaudi si regge innanzitutto su regole morali: quanto più lo Stato aumenta la sua ingerenza nell’economia, tanto più aumentano le occasioni di connivenze e corruzione, di sovraccarico del bilancio statale, di ricerca di rendite e di svilimento della libera iniziativa individuale, e di sfiducia generalizzata verso lo Stato e la classe politica. Pochi pensatori furono, più di Einaudi, cantori dell’uomo libero, responsabile e artefice del suo destino, che lotta, cade e si rialza, «imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi» (La bellezza della lotta , 1923). L’idea di fecondità della lotta veniva da lui estesa alla società civile e alle istituzioni, nei termini di concorrenza e discussione critica.
Muovendo da questo principio, Einaudi ha combattuto con coraggio innumerevoli battaglie riformiste: contro il paternalismo politico, i monopoli, il privilegio, la burocrazia, le corporazioni, l’«assalto alle risorse pubbliche», e contro le ingiustizie perpetrate dai pochi e dai «furbi» a danno dei molti. Preconizzando la fine del principio di sovranità, Einaudi si è spinto a immaginare un mercato unico europeo e una Europa politica, con una moneta unica e istituzioni e bilancio federali. Ha combattuto per il valore delle associazioni intermedie come peculiare tessuto connettivo della società civile, e per le autonomie locali più vicine al cittadino. Ha poi insistito sull’importanza di un ampio ceto medio, per la sua funzione di «mediazione» nei termini di equilibrio e coesione sociale, in vista di una società non eccessivamente sperequata e in grado di garantire una maggiore eguaglianza nei punti di partenza.
Un’eguaglianza che avrebbe però dovuto riconoscere le ragioni del merito: una società che nega la fecondità della lotta, della varietà e del dissenso, non solo impedisce l’emersione dei migliori ma si preclude, in senso più ampio, qualunque prospettiva di miglioramento. Ecco perché la società liberale da lui auspicata è ancora davanti a noi, non dietro di noi.
Tale società può dirsi «aperta» se non ha paura di rischiare. Essa deve lasciare spazio agli «intraprendenti», affinché «possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità» (In lode del profitto , 1957). La parola «aperta»traduce l’istanza che tale società rimanga, per così dire, «ideale», e dunque sempre pronta al cambiamento, non perfetta ma perfettibile, lungo un cammino di tentativi ed errori. Per questo il buon governo non può che configurarsi come problema e come ricerca. Niente di più lontano da uno slogan.
La lotta di Einaudi contro i mali del suo tempo dev’essere testimonianza che il futuro è sempre aperto, e che un altro mondo è ancora e sempre possibile. Anche per noi è arrivato il momento di ricostruire. Avremo il coraggio di rischiare? Sapremo essere all’altezza di quel sogno?




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