Pagine

mercoledì 14 maggio 2014

GIUSTIZIA CIVILE : ATTENZIONE A PERDERE DI VISTA IL RISULTATO "GIUSTO" PER AVERNE PER FORZA UNO "CELERE"

 
Ho apprezzato l'intervento, sulla pagina delle Opinioni del Corriere, del Prof. Pietro Trimarchi, già ordinario di diritto civile all'Università di Milano, oggi professore emerito della stessa Facoltà, autore di un manuale di Diritto Privato lodevolmente chiaro. 
Nell'esaminare l'arcinoto problema della lentezza dei processi civili, quelli che scoraggiono l'intrapresa economica, specie di quella  di aziende estere, il professore mette in guardia dall'adozione di misure che, con il proposito di accelerare i tempi, inficino la cura dei provvedimenti. "Gioca male ma gioca svelto" è esortazione divertente ma discutibile in campo sportivo, figuriamoci in quello del diritto.
Senza contare che qui si parla del processo di merito e nessuno fa parola del vero cancro, che è quello esecutivo. Quando io iniziai, più di un giubileo fa, un processo di primo grado durava minimo 4 anni, adesso, se non ci si mettono in mezzo vicissitutini come perizie complesse e/o tormentate, sostituzioni del giudice, rinvii d'ufficio, addirittura congelamente del ruolo, si può pensare senza eccessi di  ottimismo di avere una sentenza in meno di tre anni e con un pizzico di fortuna anche due. Ovviamente le eccezioni sono numerose, ma si può dire che quella che prima era la regola, 4 anni per UN grado, oggi non lo è più. Hanno inciso molto la scomparsa dei rinvii chiesti dalle parti e tutta una serie di tattiche dilatorie un tempo tollerate, e anche una maggiore attenzione dei presidenti sulla "produttività" dei propri giudici. Questo, come detto, in primo grado. Il dramma scoppia in appello, dove il numero dei giudici in rapporto alle cause appellate fa sì che, senza dover fare alcuna attività istruttoria ma solo per avere la decisione, passano mediamente dai 3 ai 4 anni ! Senza che accada alcunché nel mezzo !
C'è però una cosa che non viene detta, o almeno io non la leggo mai. Le sentenze di primo grado sono ESECUTIVE, a differenza (giustamente) di quelle penali (c'è chi vorrebbe rendere esecutive quelle di condanna...) , e questo dovrebbe scoraggiare appelli dilatori, che invece prima erano scontati anche dove era palese il proprio torto. E' vero che c'è la possibilità della sospensione dell'esecutorietà, ma nell'ambito ordinario questa è concessa assai raramente ( più chance si hanno in campo amministrativo). 
Quindi, se è vero che i processi in appello durano il doppio di quelli di primo grado, e solo per il deficitario rapporto del numero cause/giudici, è anche vero che la parte che ha ottenuto la prima sentenza vittoriosa potrebbe vedere intanto tutelato il diritto a lei riconosciuto. 
Così NON è, perché l'esecuzione forzata NON funziona. Un pignoramento immobiliare, a Roma, non porta all'asta prima di un lustro, poco meno. Anche qui dei miglioramenti ci sono stati, con l'introduzione di alcune decadenze, l'istituzione di un amministratore del bene nominato dal Giudice, che cura una serie di adempimenti finalizzati ad arrivare alla vendita, ma il numero delle procedure ha comunque la meglio e i rinvii da un'udienza all'altra ( comunque bisogna nominare un perito, poi c'è l'esame della perizia, poi le questioni sollevabili dal debitore ecc.) sono molto lunghi. Non parliamo se poi la sentenza ti dà ragione con la pubblica amministrazione, perché allora ti puoi veramente mettere comodo, che si tratta di soggetto che non può fallire, ha tutta una serie di guarentigie circa la pignorabilità e quindi il creditore alla fine sta al buon cuore della politica che si decida a trovare i soldi per i pagamenti.
In tutto questo metteteci la solita burocrazia, la lentezza degli uffici, cancellerie e, peggio, gli ufficiali giudiziari, e il quadro è completo.
Chi cerca di sfuggire, almeno per le notifiche, alla morsa di questi ultimi, si scontra con le storture del pianeta postale. 

Altro, come ben ricorda il Prof. Trimarchi, che sentenza senza motivazione o giudici sempre meno qualificati ( aumenta il numero dei got nei Tribunali). Si allarga l'imbuto dalla parte dell'entrata, con un maggior numero di sentenze non si sa quanto azzeccate in primo grado, senza che si dilati l' uscita dell'esecuzione delle stesse.
Alla fine, il nodo fondamentale resta il NUMERO dei processi, dati da una società troppo litigiosa, cosa che comporta anche il faticoso decollo di strumenti, che io reputo positivi, alternativi come quello della mediazione.
Buona Lettura



Italia pecora nera della giustizia civile 
Serve un filtro per i ricorsi in Cassazione
di PIETRO TRIMARCHI 

Caro direttore, la classifica di Doing Business 2014 circa l’efficienza del sistema giudiziario in materia contrattuale, elaborata dalla Banca mondiale, pur promuovendo l’Italia al 103° posto (su 189) dal precedente 160°, la colloca ancora molto in basso nella classificazione, mentre Francia, Germania e Austria si collocano entro i primi 7 posti, Regno Unito e Spagna intorno al 60°, e l’Italia è preceduta da più della metà dei Paesi del mondo, compresi molti che siamo portati a considerare con (più o meno giustificabile) sufficienza. Si può anche avere qualche dubbio sulla validità del metodo impiegato, ma, in ogni modo, è innegabile che la durata media dei giudizi civili italiani sia eccessiva e molto superiore a quella dei Paesi europei a noi vicini ed è certo che ciò è una causa (non l’unica) che scoraggia gli investimenti, e in particolare gli investimenti esteri, in Italia.
Gli interventi legislativi per rimediare all’eccessiva durata delle cause civili sono stati numerosi negli ultimi anni e per lo più rivolti a modificare le regole del procedimento, allo scopo di abbreviarlo. Fra le modificazioni spiccano l’introduzione di preclusioni alle novità in corso di giudizio e la limitazione della collegialità delle decisioni. Occorre peraltro non perdere di vista che le esigenze di semplificazione e celerità sono in qualche modo antitetiche con quelle di approfondimento dialettico, rivolto al raggiungimento di un giusto risultato, mentre (è il caso di dirlo?) la qualità delle decisioni non è meno importante della loro celerità: si tratta, dunque, di trovare un efficiente coordinamento fra le due esigenze contrapposte.
Una più rigorosa limitazione della possibilità di ricorrere in Cassazione sembra però opportuna, mediante una regola che, sul modello di quanto disposto in Paesi a noi vicini, e previo il necessario aggiustamento dell’art. 111 della Costituzione, limiti la possibilità di ricorso in Cassazione alle cause che attengano a diritti fondamentali, o propongano questioni di maggiore importanza di principio o di valore economico non trascurabile.
Proseguendo nella linea seguita finora, di semplificare il procedimento nella speranza di abbreviarne i tempi, ma con il rischio di sacrificare la qualità del servizio, si propone ora l’idea di una motivazione analitica della sentenza obbligatoria solo quando sia richiesta dalla parte che, conosciuta la decisione, voglia impugnarla. La proposta considera dunque la motivazione solo come elemento necessario per il controllo della decisione in sede di impugnazione e non considera che, prima ancora e soprattutto, l’obbligo di motivazione opera quando si è ancora nella fase della decisione, costringendo chi giudica a una riflessione più attenta, precisa e completa. Perciò la proposta in questione rientra fra quelle che al fine della celerità sacrificano la qualità delle decisioni, con il rischio, oltre tutto, di aumentare la frequenza delle impugnazioni, contrariamene a quello che si vorrebbe.
Lo stesso è a dirsi per l’idea, che si sente ventilare, di un’ulteriore limitazione del principio della collegialità delle decisioni. La proposta sembra muovere dal falso presupposto che la collegialità sia di fatto ridotta a una mera formalità, mentre invece vi è ragione di ritenere che, almeno nelle cause che presentino maggiore interesse, il dibattito, quantomeno fra giudice relatore e presidente, sia normale, e costituisca per i giudici di prima nomina un importante complemento della loro formazione, ad integrazione di quella puramente libresca. Un giudice che, fin dall’inizio della propria attività, si sia abituato a pronunciare da solo sentenze immediatamente esecutive, anche su questioni complesse, senza essere tenuto a presentare il proprio punto di vista in una seduta collegiale, senza affrontare il confronto con richieste di chiarimento, dubbi e proposte dei colleghi, e senza neppure il confronto con le proprie riflessioni occasionate dalla necessità di redigere una motivazione analitica, rischia di sviluppare un atteggiamento mentale che non giova alla qualità delle decisioni.
D’altra parte, l’ambito di applicazione del giudizio collegiale fu già ridotto in larga misura nel 1999 e non sembra che abbia determinato un aumento della produzione annua di sentenze.
La conclusione è che, salva l’opportunità di ridurre le possibilità di ricorso in Cassazione, la strada delle semplificazioni del procedimento a costo di compromettere la qualità del servizio non dovrebbe essere ulteriormente percorsa. I ritardi non derivano dalle attività processuali, bensì dalla permanenza dei procedimenti in lista d’attesa, a causa dell’ingente arretrato (circa 5 milioni di procedimenti civili), e le misure qui criticate non possono giovare in modo apprezzabile al suo smaltimento. Si può piuttosto sperare nelle misure organizzative recentemente preannunciate dal ministro.
Vi è poi il problema del numero enorme, e abnorme, delle liti, che è alla radice del problema, e su di esso si potranno fare altre considerazioni e proposte.
 

Nessun commento:

Posta un commento