Concetti giusti, anzi giustissimi. ma forse è la difesa dei soggetti che è sbagliata. Questo mi è venuto in mente leggento il contributo di Giuseppe De Rita alla pagina dele opinioni del Corriere di oggi. Intanto diciamo che mi sono un po' stupito di leggere questo elogio della meritocrazia e anche di una certa disuguaglianza economica - come risultato del successo nel lavoro -, che francamente non mi aspettavo in De Rita che ho sempre collocato tra la sinistra DC e il socialismo democratico (magari sbagliando). Però, evviva !
E posso anche essere d'accordo con lui quando rivela il timore che ci sia della demagogia livellatrice nella campagna di Renzi contro gli alti stipendi dei dirigenti e manager pubblici. Però il problema, specialmente nel campo dei commis di Stato, è : veramente la retribuzione alta corrisponde ad una elevata capacità ? Perché è questo il lepre, come si dice scherzosamente dalle mie parti. Quindi l'analisi del passato, del motore di crescita dell'Italietta, dell'invidia sociale da non favorire (anzi) sono assolutamente condivisibili e bene fa De Rita a ricordarli.
Però resta l'obiezione detta : certe posizioni, soprattutto nel pubblico, lo ripeto, sono assai poco meritocratiche, e gestite come rendite.
Comunque, da leggere
Se la «livella» frena lo sviluppo
Colpisce la determinazione con cui il governo sta imponendo un drastico livellamento di compensi, status e ruoli nella fascia alta della dirigenza pubblica. A molti il tutto appare una mossa di elettorale ricerca di facile consenso; a qualche malfidato può apparire la vittoria dei poteri extrapolitici che si ispirano al valore della «livella»; ma soprattutto appare ed è una scelta politica, alimentata da una qualche filosofia di «invidia e livellamento» che lo stesso Marx riteneva una deviazione volgare delle sue idee e proposte.
Le prime due ipotesi possono alimentare il dibattito mediatico, ma è la terza che produce effetti anche pericolosi sulla composizione sociale e sui comportamenti collettivi. Va quindi analizzata in profondità.
Questo è un Paese che è cresciuto, in agiatezza e libertà (e democrazia reale, se è permesso) attraverso un grande processo di mobilità collettiva, in parte orizzontale (le migrazioni interne) ma in massima parte verticale, con milioni e milioni di persone che hanno cambiato lavoro, reddito, status: sia attraverso le carriere interne alle aziende produttive e terziarie sia attraverso il mettersi in proprio facendo i lavoratori autonomi e gli imprenditori specialmente piccoli. E in questi due canali di mobilità il punto d’arrivo, anche d’immagine, è stato lo sviluppo di consumi che una volta avremmo definito «alto-borghesi»: la casa sempre meglio arredata, l’auto sempre più importante, la gamma sempre più ampia delle apparecchiature tecnologiche (dal frigorifero fino al tablet), la propensione alle vacanze internazionali invece che alla villeggiatura domestica.
Qualcuno nel tempo ha criticato questa ricchezza di consumi considerandola un fattore di distorsione della sobrietà contadina dei padri e dei nonni; ma nessuno ha potuto negare che la grande modernizzazione ha visto crescere in parallelo redditi e consumi medio-alti. Si può oggi pensare di livellare sia gli uni sia gli altri, ma va messo in conto un probabile rallentamento, se non un blocco, della mobilità sociale verticale che sta alla loro base e un appannamento dei valori che essa comporta (dal merito al rischio, dalla responsabilità al desiderio del progredire, ecc.). Con cosa li sostituiamo per dare intima vitalità al sistema; visto che non bastano certo i rituali retorici richiami all’impegno, l’innovazione, la ricerca, la formazione scolastica e universitaria? Non si bloccano i motori che hanno alimentato finora il nostro sviluppo senza sostituirli con fattori altrettanto motivanti sul piano dei comportamenti collettivi .
Qualche osservatore elitario potrà dire che esistono delle minoranze attive che sono andate oltre la mobilità di massa degli ultimi decenni (le imprese che esportano, le fasce di made in Italy anche agroalimentare, i giovani che vanno a studiare e lavorare all’estero, ecc.); ma si tratta pur sempre di minoranze, che arricchiscono se stesse ma non sono capaci di trainare lo sviluppo complessivo del Paese. Senza il fervore di milioni di persone vogliose di crescere in reddito, ruolo, status e consumo, questo è un Paese destinato non a livellarsi al basso, ma a livellarsi e basta; perché il suo motore antropologico rischia di essere non la gara emulativa fra chi fa e ottiene di più, ma piuttosto l’invidia strisciante e rancorosa per chi ha di più, indipendentemente da quello che fa, in campi di diversi traguardi e comportamenti. Cerchiamo allora di restare fedeli alla semplice verità che lo sviluppo di un popolo viene dalla liberazione delle diversità non dal loro livellamento, sia esso pure giustificato moralisticamente ed esaltato elettoralmente .
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