Preoccupato dell'escalation militare in Ucraina, dove i prodromi di una guerra civile minacciano di sfociare in una invasione da parte russa, in nome del principio zarista "dove ci sono russi, c'è Russia" fatto proprio da Putin, ho riportato l'intervista di Andrej Illiarov, già consigliere dello Zar di Mosca, oggi passato all'opposizione critica. In essa - che volendo potete leggere nel link http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/05/per-fermare-putin-serve-schierare-le.html - il concetto espresso è molto chiaro e semplice : se l'Occidente vuole che Putin si fermi, deve schierare le truppe Nato in Ucraina.
Tutto il resto non servirà.
Potrà essere discutibile, ma almeno è chiaro.
Lo è meno nelle conclusioni, anche se l'analisi contiene molte riflessioni condivisibli, l'editoriale dedicato allo scottante argomento del giorno - anche se noi italiani ce ne freghiamo, che mica siamo ucraini no ? miopi però sì - dall'ex ambasciatore Roberto Toscano, sempre su La Stampa .
E' una cosa che vedo spesso nei diplomatici (in questo caso ex) : la conoscenza dei problemi è indubbia, e quindi l'esposizione di fatti e valutazioni appare corretta, poi però si arriva al "che fare dunque ?" , e qui invece l'indeterminatezza prende il sopravvento.
A sentire queste persone - non segnatamente Toscano, parlo in questo caso dei politici in campo diplomatico - le guerre sarebbero sempre state evitabili. Sì, col senno di poi. In realtà, se questa tremenda compagna della storia dell'umanità è sempre esistita e perdura qualcosa vorrà dire temo.
Ci sono dei momenti dove i nodi diventano talmente aggrovigliati che non possono più essere sciolti. E allora non resta che la spada. Accadde nel 1939, dove Francia e GB, che pur di evitare una seconda guerra ad appena 20 anni dal macello del 1914-1918, avevano subito l'armarsi della Germania hitleriana e le annessioni dell'Austria, dei Sudeti e poi della Cecoslovacchia, posero la red line sul confine polacco. Il resto lo sappiamo.
Anche allora i diplomatici domandavano se si potesse morire per Danzica...
E' paragonabile Putin a Hitler ? Penso assolutamente di no, che il primo aveva un disegno pangermanico e razziale folle, il secondo vuole "semplicemente" ricostruire la grande Russia, uscita penalizzata dalla dissoluzione dell'URSS. Il problema è che per far questo, deve annettersi nazioni oggi indipendenti e dove la maggior parte della popolazione questa cosa non la vuole. Siccome però in quegli stessi paesi la gente russofona è numerosa, e in alcune regioni molto, ecco che allora si cavalca il secessionismo.
Nemmeno a dire che la via diplomatica non venga perseguita, che a Ginevra quelli di Kiev ci sono andati e hanno sottoscritto un accordo insieme a Putin dove è prevista la concessione di una forte autonomia per le regioni dove è marcata la presenza di popolazioni dalla lingua russa.
Bene, i ribelli che vogliono la secessione hanno subito denunciato quell'accordo, e organizzato azioni contro il governo centrale. Naturalmente ci stanno poi le fazioni opposte, tra cui gli ultranazionalisti che hanno un sentimento storicamente antimosca, e in mezzo c,è il debole governo di Kiev.
Brutte carte, indubbiamente. Possibile che le sanzioni siano sufficienti come deterrente? Sembra di no, e lo stesso Toscano sembra non del tutto convinto.
Allora ? Allora NON lo sa. Perché è questo è il bello per chi commenta rispetto a chi governa.
Però una concessione sembra farla, dando di fatto ragione a Illiarov : deterrente vero sarebbe la difesa Nato.
Però, aggiunge subito, non si può, visto che l'Ucraina non è un paese che ne fa parte...
Se quelli come Toscano, o Romano, fossero stati al posto di Churchill o Roosvelt forse in Europa regnava la svastica.
PUTIN COME MILOSEVIC
Una guerra in Europa? Fino a pochi giorni fa
si trattava di un’ipotesi assurda, impossibile. Il fatto che oggi essa sia
solamente improbabile basta a far sì che l’inquietudine si stia diffondendo
anche fra chi riteneva, sulla base di considerazioni del tutto razionali, che
la contrapposizione fra Mosca e Kiev avrebbe finito per trovare uno sbocco di
tipo politico-diplomatico.
E invece nel
Donbass, la regione sud-orientale dell’Ucraina, si spara, e non si tratta più soltanto
di scontri a fuoco a posti di blocco, ma – viene segnalato l’abbattimento di
due elicotteri ucraini nella zona di Slavyansk – di operazioni di natura
militare.
Ci sono voluti pochi
giorni per vanificare completamente l’accordo di Ginevra, sulla cui base sia
Russia che Ucraina si erano impegnate ad astenersi da qualsiasi atto capace di
alimentare l’escalation del conflitto.
Il governo di Kiev
sta cercando di ristabilire un minimo di controllo contro una situazione sempre
più minacciosamente simile, nella sostanza, a quella che ha portato
all’annessione alla Russia della Crimea, mentre quello di Mosca nega, anche se
con assai scarsa credibilità, ogni coinvolgimento.
Inoltre dalle due
parti si sono messe in moto dinamiche di radicalizzazione violenta che fanno
dubitare della possibilità di riprendere in mano la situazione anche qualora si
potesse raggiungere un’intesa reale sul piano politico e diplomatico. Le
reciproche accuse di russi e ucraini sullo scatenarsi di forze organizzate di
tipo estremista risultano entrambe fondate, anche se non vi sono dubbi su chi
oggi sia all’attacco. Superior stabat lupus, e il lupo ha gli occhi di ghiaccio
di Vladimir Putin.
Andrebbe evitato, se
vogliamo essere seri, di scomodare il fantasma di Hitler per descrivere l’offensiva
geopolitica del presidente russo, ma vi è un parallelo storico che invece
sembra possibile evocare con molto maggiore fondamento: quello con Milosevic.
Come Milosevic non si rassegnava al disfacimento della Jugoslavia, Putin non ha
mai fatto mistero di ritenere il crollo dell’Urss come un’inaccettabile
catastrofe. Di più: così come Milosevic pretendeva di proteggere con la forza i
serbi ovunque si trovassero, e rivendicava per la Serbia i territori da loro
abitati, Putin afferma di fatto che «là dove ci sono russi c’è Russia».
Revanscismo storico e geopolitico perseguito tramite l’irredentismo
etnico-linguistico.
Infine, l’ideologia.
Pur formati all’interno di regimi comunisti, sia Milosevic che Putin hanno
dimostrato di credere che, rispetto alla parabola storicamente discendente
dell’ideologia comunista, il nazionalismo fosse capace invece di fornire in
modo ben più profondo e sostenibile coesione nazionale e legittimazione
politica.
Un’onesta
riflessione autocritica dovrebbe portare i Paesi occidentali, soprattutto gli
Stati Uniti, ad interrogarsi sugli errori della politica condotta nei confronti
della Russia post-sovietica. Sul New York Times Roger Cohen intitolava ieri un
suo commento «La sindrome di Weimar della Russia» citando, senza contestarla,
l’analisi di uno dei principali esperti russi di questioni internazionali,
Sergei Karaganov, che parla dell’umiliazione e della frustrazione di un Paese
che credeva, una volta liberatosi della zavorra di un sistema antagonistico
all’Occidente, di venire accolto come partner e non trattato come perenne
sconfitto.
Il problema oggi,
tuttavia, non è quello di ripercorrere la sequenza di errori che ci ha portato,
nel dopo-Guerra Fredda, all’attuale situazione di pericolosa ingovernabilità.
Ce ne sarebbe per tutti. Per un’America prima così inebriata dalla fine dello
storico nemico sovietico da credere davvero di potere essere onnipotente e in
grado di gestire unilateralmente il mondo, ed oggi in difficoltà nel fare i
conti con la ben più dura realtà. Per un’Europa sempre più gigante economico e
nano politico, incapace di andare oltre un’estenuante mediazione dagli sbocchi
inevitabilmente minimalisti, e per di più alle prese con una crisi interna di
credibilità e consenso.
Le autocritiche sono
necessarie, ma non ci esimono dalla necessità di decidere comunque cosa fare
ora per impedire sia il conflitto che il trionfo dell’arbitrio e della
prevaricazione.
Nel più classico
degli schemi, Putin cerca di spostare sul terreno della mobilitazione
nazionalista il discorso che altrimenti cadrebbe sulle carenze economiche e
politiche di una Russia che, nonostante il grande potenziale, rimane
semi-sviluppata e semi-democratica.
Possiamo sperare che
un sistema di sanzioni possa indurlo a una politica meno avventurista? Le
sanzioni sono sempre un’arma problematica da gestire e dagli effetti non
univoci. Gli americani criticano oggi in modo sempre più esplicito gli europei,
in primo luogo la Germania, per quella che considerano una loro eccessiva
prudenza. Ma che credibilità possiedono sanzioni che hanno per chi le impone
effetti più pesanti che non per chi le subisce? L’America sta rapidamente
diventando autosufficiente in materia di energia, l’Europa non può nemmeno
sognarlo. E a quanto ammontano le esportazioni degli Stati Uniti verso la
Russia raffrontate a quelle Europee?
Ragionare in questi
termini non significa essere a libro paga dei russi, come l’ex Cancelliere
Schroeder, entusiasta «amico di Vladimir».
Se non si tiene
conto di queste asimmetrie risulta poco credibile la caricatura degli americani
intransigenti contro gli europei deboli.
Ma non sono solo gli
europei a venire bollati con il marchio della presunta debolezza. Anzi, il
bersaglio principale di questa polemica si trova negli stessi Stati Uniti, dove
Barack Obama è sottoposto ad un serrato bombardamento di critiche dei
repubblicani, ma anche di vari esponenti del suo stesso partito. Non è chiaro
oggi per la crisi ucraina, così come non lo era rispetto al conflitto siriano,
cosa esattamente si vorrebbe dal Presidente americano. Di solito i suoi critici
lo esortano a «fare qualcosa», purché però non si tratti di azioni che
comportino oneri per il bilancio federale o l’impiego in battaglia di «American
boys».
Nei confronti della
Russia oggi sembrerebbe in ogni caso da evitare di proclamare ultimatum che non
sarebbero credibili, come l’imbarazzante sequenza delle «linee rosse» di Obama
nei confronti del regime siriano.
Vi è una sola
autentica linea rossa solidamente fondata politicamente e legalmente, anzi
obbligata: quella dell’Art. 5 della Nato, con l’impegno di difesa nei confronti
di un Paese membro dell’Alleanza che sia oggetto di un attacco. Al di là di
questo, vi è la politica. Una politica fatta di negoziati e pressioni, di
incentivi e disincentivi, di compromessi e punti fermi, di interessi e valori,
e soprattutto di consapevolezza sia della propria forza che dei suoi limiti.
Non basterà di certo una poco credibile
«faccia feroce
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