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sabato 8 novembre 2014

OSTELLINO : PERCHE' "CONSERVATORE" NON E' UNA PAROLACCIA

 The greater the power the more dangerous the abuse, Edmund Burke, Image Copyright - Ireland Calling

Piero Ostellino, nella sua imperdibile ( al di là dall'essere  personalmente d'accordo con quello che scrive, cosa che avviene molto spesso ma non necessariamente sempre, e meno male ! ) rubrica del sabato sul Corriere della Sera, spiega perché la parola conservatore non sia una offesa in America, e perché non lo dovrebbe essere nemmeno in Italia.
In realtà i conservatori americani sono potenzialmente (la realtà  è più vasta e variegata) gli eredi del liberalismo più classico, quello di Tocqueville, Costant e Ostellino cita anche il nostro Cavour, in contrapposizione con l'esaltazione egualitarista propria della parte più radicale della rivoluzione francese. 
Volendo sintetizzare e semplificare, non è vero che nasciamo tutti uguali (fin da subito, c'è chi è più dotato fisicamente ed intellettualmente, dopodiché scatta subito l'ingiusto ma mai del tutto superabile discrimine dello status sociale) , mentre è vero che dovremmo avere tutti gli stessi diritti. 
Ogni tanto in occidente c'è qualche leader di sinistra, o, se vogliamo cambiare parola, progressista, che si lancia in avventurosi programmi ispirato dal mito egualitario. Dopodichè la realtà prende il sopravvento. Accadde, lo ricordo bene, a Mitterand, si sta ripetendo, sempre in Francia, con Hollande, che non ha aspettato nemmeno il secondo mandato (che se continua così NON vedrà) per fare marcia indietro, ed è successo in America con Obama. 





Se (negli Usa) liberale si dice conservatore
di Piero Ostellino



Le elezioni americane dette «di medio termine» sono una sconfitta per i democratici e per Obama. Non si sa come il presidente potrà governare avendo contro tutto il Congresso. Il loro significato non è, però, solo un fatto numerico; è, anche un fatto culturale e politico. Dice che, in America, una politica democratica troppo enfatizzata, e, in Europa, una troppo di sinistra, finiscono col produrre lo stesso esito: il successo di chi è, o si professa, conservatore. Il Partito repubblicano, nel mondo anglosassone, è l’erede del conservatorismo di Edmund Burke, l’autore delle «Riflessioni sulla Rivoluzione francese» che avevano preceduto i sentimenti antiegualitari ottocenteschi di Constant, di de Tocqueville e, perché no, del nostro Cavour. La tradizione liberale in America e, ancorché minoritaria, anche in Europa, è rappresentata da un conservatorismo non ideologico, non reazionario, empirico e realista. Ricordo che un amico americano, volendo dire che sono liberale, disse alla moglie: «Ostellino è un vero conservatore». Un altro europeo se ne sarebbe avuto a male. Non io, che mi considero liberale proprio nella tradizione non solo di Burke, ma altresì di Constant, di Tocqueville e, perché no, di Cavour. Si tratta di un liberalismo contrario all’egualitarismo che, dopo l’esperienza del Terrore giacobino, si era annunciato premessa di disordini e di danni. Per la cultura politica europea l’attributo conservatore è poco meno di un’offesa, associato come è alla destra, dal progressismo ideologico e verbale del comunismo. Gli americani non temono di dirsi conservatori quando vogliono dire di essere liberali. Se ne ricordano puntualmente quando alla presidenza arriva un personaggio dalla fisionomia (democratica) fortemente demagogica, come è stato Obama. La cui elezione era stata salutata con entusiasmo in Europa, ma così assimilata, almeno agli occhi dei suoi concittadini, più a un leader europeo che a un presidente statunitense. Gli Stati Uniti sono nati, nel 1776, da una rivolta fiscale contro il dominio coloniale inglese — che imponeva troppe tasse — ma non, come ha scritto Anna Arendt, contro la cultura e il sistema politico inglesi cui si erano ispirate le tredici colonie e la stessa proclamazione di indipendenza.
   Non mi pare, perciò, il caso di esultare per il successo repubblicano, bensì, piuttosto, credo la si dovrebbe interpretare, da noi, come una lezione politica.

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