Puntualmente avvertito dalla mia sentinella sul Sole 24 Ore, l'impagabile Caterina, sono andato a leggermi l'ultimo articolo di Luca Ricolfi, il quale, al netto delle colpe di greci ed europei, mette in evidenza la necessità di una soluzione "nuova", che lui indica nella possibile flessibilità del cambio dell' Euro.
Francamente, non ho le competenze necessarie per valutare una simile strategia, ma sono sicuro che gli esperti, o presunti tali, diranno la loro al riguardo.
Né con questa Grecia, né con questa Europa
di Luca Ricolfi
Uno dei problemi del referendum ellenico, subito denunciato da molti cittadini greci, è che nessuno - né Tsipras, né l'Europa - era in grado di indicare il senso esatto del quesito, ovvero quali conseguenze fosse ragionevole attendersi da una vittoria del no e quali da una vittoria del sì. E infatti, anche ora che il referendum ha avuto un esito univoco, nessuno sa che cosa ci riserverà il domani.
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Che questa fosse una finzione era chiaro da tempo a chi avesse voluto vederlo (e questo giornale lo ha ribadito forte e chiaro domenica, con l'editoriale del direttore, senza aspettare l'esito del voto), ma oggi - con la vittoria del no - è diventato del tutto evidente: la Grecia non ripagherà tutti i suoi debiti, e non sarà qualche punto di Iva in più a rendere possibile un accordo che non si è trovato in mesi di dialogo fra sordi.
Quali sono, questi nodi dell'eurozona?
Fondamentalmente uno soltanto: in 17 anni, ossia da quando si è vincolata all'euro, l'Europa non ha ancora trovato un meccanismo che sostituisca degnamente quello di cui si è privata dal 1° gennaio del 1999, ossia la flessibilità del cambio. Riconoscere questo, sarebbe già un grandissimo passo avanti, indipendentemente dal fatto che si ritenga che un tale meccanismo possa essere trovato, come pensano i più, o che un tale meccanismo non possa esistere, come pensa una non troppo sparuta (e anzi crescente) schiera di studiosi.
Il peggio che può succedere, su questo terreno, è che il problema venga ancora una volta rimosso, o venga affrontato in modo puramente ideologico, magari riproponendo la vecchia diatriba fra “austeriani”, difensori dell'austerità, e “keynesiani”, fautori dello stimolo monetario e della spesa in deficit. La realtà, temo, è che sia la Grecia sia le istituzioni europee avrebbero bisogno di un serissimo e assai doloroso esame di coscienza.
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Ma se i governi greci hanno gravissime responsabilità nel disastro cui hanno condotto il loro popolo, tutto si può dire tranne che l'Europa, questa Europa burocratica e divisa, abbia le carte in regola. Al di là della pessima gestione del caso greco, che si trascina da anni nell'ipocrisia e nella finzione, con i debitori che sottoscrivono accordi che sanno di non poter rispettare, e i creditori che fingono di credere alle promesse dei debitori, resta il fatto che l'Europa un modo per limitare e gestire gli squilibri commerciali e i divari di competitività non lo ha ancora trovato. La regola che impone il rispetto del 3% nei deficit pubblici viene fatta valere rigidamente, ma a fasi alterne, e nessuna regola altrettanto ferrea impedisce a un Paese come la Germania di avere sistematicamente (ovvero per più di un decennio) un surplus che supera il 4% del Pil. L'Europa, in questi lunghi anni di costruzione dell'edificio comune, non è stata né keynesiana, né liberista. Ad essere keynesiana non ha pensato neppure un minuto, mentre liberista lo è stata solo nella fantasia dei suoi oppositori più ciechi. Se fosse stata davvero liberista avrebbe preteso basse tasse sui profitti, aggiustamenti dei conti pubblici dal lato della uscite piuttosto che delle entrate, riforme incisive in tutti i mercati, e non solo in quello del lavoro. Soprattutto, non avrebbe soffocato il mercato interno con un eccesso di divieti, direttive, adempimenti.
Forse la realtà è che, in questi lunghi anni di crisi, a vincere o a perdere, più che l'Europa, sono state le singole nazioni. L'Europa ha tentato di imporre le sue ricette, spesso ragionieristiche e miopi, ma poi sono stati i singoli Paesi che le hanno declinate e interpretate, adattandole a sé stessi con maggiore o minore convinzione. Chi le ha prese più alla lettera, penso soprattutto a Portogallo, Italia, Finlandia, ha passato la nottata ma arranca ancora. Chi le ha interpretate in chiave liberale, come la Spagna e soprattutto l'Irlanda, ora sembra avere discrete possibilità di tornare alla crescita. Chi le ha rifiutate in toto, in realtà solo la Grecia, ora rischia il collasso. Ma tutti, vincitori e perdenti di questi anni ben poco gloriosi, dovremmo aver imparato che le regole che ci eravamo dati per convivere non hanno funzionato. E, probabilmente, non potevano funzionare.
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