In Gran Bretagna i sondaggi danno in testa quelli del "Leave" (partire, lasciare), rispetto a quelli del "Remain" (restare). Non di molto, dunque, entro fine giugno la Gran Bretagna dovrebbe lasciare l'Unione Europea, e sarà, del caso, uno scossone niente male. Draghi e Banca d'Inghilterra studiano strategie di assorbimento del colpo, mentre le borse si agitano alquanto (vabbè, per quelle ogni pretesto è buono).
Naturalmente in molti danno addosso all'antieuropeismo britannico, che ha radice storiche (Sergio Romano è invece tra quelli che sarebbero contenti che la "perfida albione" se ne andasse, convinto che gli inglesi abbiano fin troppi privilegi nel loro far parte della UE), però è di qualche giorno fa la notizia per la quale in Francia, uno dei paesi fondatori dell'idea dell'Europa unita, il 68% (cioè quasi due su tre !!) dei francesi, se potessero votare in un referendum analogo, voterebbero per "Leave"...
In realtà, dunque. meglio non farli questi referendum qui, che, notoriamente, non tira una buona aria per la vulgata europeista.
L'Italia, da sempre tra i più convinti sostenitori (anche perché pensiamo che alla fine ci convenga...) dell'ideale unitario, ancora registra una maggioranza pro UE, ma rispetto a qualche lustro fa, dove gli anti erano sporchi, brutti, cattivi e POCHISSIMI, adesso questi superano il 40%...
Tornando all'Inghilterra e alla sua capitale, Londra, sono molti i residenti stranieri che stanno tremando all'idea della Brexit, e tra questi i ben 600.000 italiani che vivono e lavorano nella capitale inglese.
Come potete leggere di seguito, temono un irrigidimento delle istituzioni, con crescenti difficoltà e discriminazioni nei confronti degli "stranieri", quali sarebbero anche gli europei.
Senza contare la possibile fine dei sogni dei tanti giovani italici che sognano proprio Londra come approdo futuro, per fuggire da un paese, il nostro, sempre meno prodigo per le generazioni più verdi.
L’ansia degli italiani a Londra «Se usciamo dall’Europa
saremo più discriminati»
DAL NOSTRO INVIATO
Londra Sono per l’Europa la City e i sindacati, il Times e il Financial Times
, la Banca
d’Inghilterra e i capi dei tre partiti tradizionali. Sono contro l’Europa quasi
tutti gli interventi in rete e quasi tutti gli adesivi sulle auto, gli
speculatori più spregiudicati e il tabloid più economico, il Daily Express : 10
penny, 14 centesimi. E tutto questo passa sulla testa dei 600 mila italiani che
vivono nel Regno Unito — in gran parte a Londra — e non possono decidere del
proprio destino. Hanno diritto di voto i cittadini del Commonwealth che
risiedono qui: giamaicani e neozelandesi, australiani e bengalesi, maltesi e
ciprioti; ma italiani e francesi, spagnoli e tedeschi, polacchi e portoghesi
devono attendere e sperare.
Londra è la settima città italiana per abitanti, ma in
termini economici pesa molto di più: perché tutti lavorano. Sono residenti qui
Gianluca Vialli e Gianna Nannini, gli ex ministri dell’Economia Grilli e
Siniscalco (anche Saccomanni ha casa), ereditieri e start-upper. Sono italiani
il direttore della National Gallery Gabriele Finaldi, il curatore della Tate
Modern Andrea Lissoni, il maitre di Rules — il ristorante più antico — Demis
Rossi, l’inventore di Candy Crush Riccardo Zacconi, un giochino da sei miliardi
di dollari. Per loro il referendum del 23 giugno non cambierà molto, anzi è
possibile che in una Londra fuori dall’Unione europea le tasse scendano ancora.
Poi ci sono le due categorie più rappresentate, e preoccupate: i finanzieri e i
camerieri. Il businessman e il barman.
Se vincesse Brexit, come indicano i sondaggi — ma la partita
è apertissima — si apre un’incognita. E nessuno ha un’idea chiara di quel che
sarà delle loro vite.
Il businessman: «Temo visti e quote»
Giovanni Sanfelice, 39 anni, è il presidente del Business
club degli italiani a Londra. Famiglia napoletana — discende da Luisa
Sanfelice, aristocratica giustiziata per aver scelto la rivoluzione — accento
milanese. «La prima volta sono arrivato a 17 anni, l’estate dopo la terza liceo
scientifico, in una fattoria del West Sussex: all’università sognavo di fare
agraria. Tutto il giorno nei campi a strappare erbacce prima della trebbiatura;
ho fatto pure lo spaventapasseri; e la sera lezioni di contabilità. Ho deciso
allora di fare la
Bocconi. Sono tornato per lavorare alla Ing Barings, l’ex
banca della regina. Ero nell’ufficio che vendeva i bond dei Paesi emergenti, in
particolare Argentina e Russia. La situazione a Buenos Aires e Mosca era
drammatica, ma la sera i colleghi tornavano a casa tutti contenti. Solo anni
dopo ho capito: stavano piazzando titoli che non sarebbero mai stati
rimborsati. Allora ho deciso di non fare il broker. Adesso ho una società di
consulenza con un’inglese figlia di un’ australiana e di un iraniano: infatti
lavoriamo molto con Milano e con Teheran. Soltanto qui un trentenne ha queste
opportunità. Si investe, si rischia, si assume; certo, se non funzioni ti
prendono da parte e ti dicono che sei fuori. Per questo la competizione è
fortissima, lo stress è terribile».
Racconta Sanfelice che gli italiani hanno un vantaggio:
«All’inizio eravamo sottovalutati. Non ci hanno visto arrivare. Ora trovi
italiani dappertutto: negli uffici comunali, nella sanità, pure nei club più
esclusivi come Boodles; gli inglesi mantengono solo il monopolio dei taxi». E
se vince Brexit? «Non si sa. Forse introdurrebbero visti, quote, limiti per le
cure mediche. Forse cambierà poco. Di sicuro ci sentiremo ancora più
discriminati. Perché sopra le nostre teste resiste il soffitto di vetro. Certi
posti sono riservati alla “ruling class”, alla classe dominante formata nelle
scuole della tradizione imperiale». Il dibattito non è tanto economico, quanto
politico e culturale. Gli inglesi rivendicano la loro identità, a costo di
privarsi della linfa vitale degli immigrati. Sanfelice non crede alla grande
fuga dalla City: «Qualche banca si è già spostata in Svizzera, dove però le
case e le scuole sono ancora più care. Londra resta una grande medusa che
attira tutti, prende il meglio e tritura gli scarti. Le società sono attente a
trattenere i talenti: temono la concorrenza di Google e delle start-up,
riconoscono potere anche ai giovanissimi; alla Barclays dopo quattro anni sono
gli juniores a giudicare i dirigenti. Nella finanza gli italiani sono
considerati i più svelti a comprare e a vendere; funzioniamo meno nel
raccogliere i soldi, per cui servono contatti costruiti nel tempo. La grande
differenza è che qui il capitale non viene chiuso in cassaforte; diventa merce
di scambio e strumento di crescita. E questa non è una cultura che si possa
esportare facilmente; neppure se vince Brexit».
«Londra è un hub globale» come dice l’ambasciatore Pasquale
Terracciano (non un tipo da party: sbarcò a Bengasi in gommone assieme al
generale Graziano per prendere contatto con i ribelli libici). Un volano di
investimenti finanziari. Però i medici del Great Ormond Street Hospital,
l’ospedale pediatrico dove lavorano anche infermieri italiani, hanno lanciato
l’allarme: senza i fondi Ue, la ricerca si ferma.
Il barman che arriva sempre secondo
Lorenzo Antinori, 29 anni, non discende dagli aristocratici
toscani del vino. E’ venuto qui la prima volta a lavorare in un pub di Brixton,
quartiere giamaicano. Si è laureato in giurisprudenza a Roma3. «Sognavo di fare
il procuratore di calciatori; ma il corso della Fgci costava talmente tanto che
sono tornato a Londra. Mi hanno preso al bar del Savoy come bar-back, garzone:
pulivo i bicchieri, svuotavo la lavastoviglie. Ho fatto tutta la carriera
interna fino a senior bartender, il vice del bar-manager. Nel libro del Savoy
ci sono tre cocktail di mia invenzione: uno a base di ratafia e due a base di
rum, il Panamerican Highway e il Neverending story, dove c’è anche il liquore
al cacao e una goccia di assenzio. Adesso sono responsabile del bar al
Mondrian, il boutique hotel in riva al Tamigi. Ogni anno sono in finale al
campionato di cocktail, e ogni anno arrivo secondo: deve sempre vincere un
inglese». Ma loro come ci guardano? «Con simpatia ma anche con superficialità.
Ci trovano charmant, rumorosi, affabulatori. Insomma: piacioni, casinari,
provoloni».
Antinori, come tutti gli italiani, tifa per il Remain. «Noi
siamo ospiti. Potremo restare? I barman sono molto richiesti: non si ha idea di
quanto bevano gli inglesi; i migliori hanno offerte da Singapore e Hong Kong,
ora anche da Filippine e Nigeria. Ma gli altri ragazzi? Conosco bene la loro vita,
perché l’ho fatta. Non mettono da parte nulla: il mio primo stipendio era 1100
sterline, ne pagavo 600 d’affitto e 120 di metropolitana. La città è divisa in
sei zone, sei cerchi concentrici: ti avvicini o ti allontani a seconda della
fortuna. Londra però ti dà quel senso di libertà e dinamismo che in Italia non
trovi. In Italia sei sempre lì a fare certificati; qui non contano le
raccomandazioni, solo il merito. La precarietà non è legata a un contratto ma
al valore: se non vali ti mandano via; se vali puoi crescere. E’ questo
sentimento di essere padroni della propria sorte a fare la differenza. Se
Brexit ce lo togliesse, sarebbe dura».
E non si sa se prevalga l’orgoglio
Nessun commento:
Posta un commento