Giustamente Paolo Mieli chiede le scuse per Ilaria Capua. Le chiede a l'Espresso, che è stato il capofila dell'inchiesta contro la scienziata Ilaria Capua e fa capire che sarebbe bello che gli organi istituzionali della magistratura prendessero spunto da questa cosa per riflettere sulla pessima abitudine di tenere sotto indagine persone per anni senza avere mai il pensiero di vederle in faccia, di sentirle. Io credo che a volte possa essere utile per confermare o meno un'idea che si sta formando.
L'onorevole Chimienti, deputata grillina, fu, al tempo, prontissima a scagliarsi contro la collega (Capua era stata eletta nelle liste di Scelta Civica), chiedendone naturalmente le dimissioni.
Pare che sia stata però altrettanto veloce, apprendendo del proscioglimento, nel telefonarle e scusarsi.
Bè, apprezzabile.
Le scuse dovute (mai date)
L’Italia ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte «al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia». Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage, per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere infine prosciolta perché «il fatto non sussiste». Ilaria Capua ha subito un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello.
Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in dovere di chiedergli scusa. Forse — per come ne conosciamo la storia — farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di inchiodare
Il periodico aveva evidentemente ricevuto le «carte» da qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La deputata grillina Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni.
Cose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente di più. Nei confronti degli scienziati — forse per il motivo di cui all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle loro rivalità, non formano una comunità coesa — si è in genere restii a riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i giornali anche.
L’inchiesta, come spesso accade, fu «spacchettata» e finì nel nulla. Recentemente un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato «sussiste». Già questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo trascriviamo per intero.
«Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?», domandava Stella. «Mai. O meglio, nel 2007 (molti anni prima della storia del traffico di virus, ndr ) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile», rispondeva Capua. «Ma in questi due anni?», insisteva Stella. «Mai». «Altri magistrati, forse?». «Mai». «Quindi non è mai stata interrogata?». «Mai».
Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se crede, come è possibile che questo sia accaduto.
E qual è la cosa grave? Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata.
Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle ascolto.
Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione.
Sorge in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale.
E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla.
Un ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate), ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa.
Lei lo ha fatto. Altri no.
Nelle riflessioni che facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel senso che quelli capaci di chiedere scusa — come fecero a suo tempo i radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso ) — guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E più resistenti all’usura del tempo.
Il corto circuito tra certa stampa e certa magistratura è cosa vecchia e arcinota. Penso ci si possa in qualche modo convivere ma sia la prima che la seconda che fanno i moralisti nei confronti dei vizi della società dovrebbero imparare quanto meno a chiedere pubblicamente scusa dei loro errori.
RispondiEliminaNon facendolo hanno perso, almeno per una parte di noi cittadini, ogni ombra di credibilità.