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mercoledì 6 luglio 2016

"LA POVERTA' E' CATTIVA CONSIGLIERA" e "IL RIFIUTO VANITOSO DELL'USO DELLA FORZA". IL SOLITO, GRANDE, ADRIANO SOFRI, SULLA TRAGEDIA DI DACCA



In materia di Isis, guerre arabe e terrorismo derivato, il mio autore di riferimento principale è e resta Adriano Sofri.
Questo il suo intervento dopo i fatti di Dacca.
Buona e Attenta lettura (soprattutto agli amici, e parenti, pacifisti tout court).


Considerazioni di un infermiere dilettante sull'epidemia di terrorismo

 
Il Bangladesh è un paese ideale per le ambizioni jihadiste. Ha un territorio grande due terzi di quello italiano, e una popolazione grande quasi tre volte di più. Chi lo visiti non può far a meno di pensare che in una folla simile, la più densa del pianeta, un terrorista suicida non avrebbe da studiare un obiettivo. Ogni luogo è affollato a Dhaka. Un terrorismo indiscriminato come quello che colpiva banche o piazze o treni e stazioni da noi negli anni della strategia della tensione farebbe strage a buon prezzo. Finora il terrorismo islamista bengalese aveva compiuto assassinii mirati, a colpire bloggers atei, gay coraggiosi, stranieri, intellettuali e membri delle minoranze religiose. Non aveva colpito nel mucchio, come fa terribilmente l’Isis a Bagdad. Ma l’Isis in Iraq fa strage di inermi bambini donne e uomini sciiti, perché li odia furiosamente e perché conta di scatenare la guerra civile nella capitale. Il Bangladesh è sunnita, e quando gli assassini hanno voluto colpire la piccola minoranza sciita l’hanno fatto dentro una sua moschea.
Nel ristorante di Dhaka i giovani “eleganti, intelligenti e gentili” hanno compiuto la prima azione collettiva suicida di stampo militare, senza dimenticarsi di perfezionarla con i coltellacci, per rispettare il rito. Ma hanno ostentato la selezione delle vittime. “Vengano fuori i bengalesi. Vogliamo uccidere gli stranieri”. Hanno ordinato tè e gamberetti per gli ostaggi musulmani prima che arrivasse l’ora del digiuno. Hanno spiegato loro –e forse anche agli stranieri, prima di finirli- perché erano lì, a proteggere i buoni costumi sulla terra e a guadagnarsi serenamente il paradiso: “per punire lo stile di vita”.
Le discussioni sul rapporto fra questo terrorismo e l’islam si risolvono in questo: le ragazze non devono avere il capo scoperto, gli uomini non devono bere alcool, le donne non devono indossare abiti non castigati –e le bambine devono essere sposate a piacere degli adulti, e i minori lavorare, e l’istruzione ridursi a mandare a memoria il Corano.
Per ottenere questo –tutto: il comando sui corpi e le menti di donne e uomini- proclamano che il loro Dio vieta quello stile di vita e ordina di castigarlo con la morte.
Che venga prima in loro la devozione religiosa o l’insofferenza alla libertà del loro prossimo è questione capricciosa: l’una fa da pretesto all’altra. Che questa terra bruciata di ogni libertà sia desiderata con tanto ardore da giovani che hanno goduto di privilegi materiali e di studi prestigiosi non solo non sorprende –chissà se sia più ipocrita o più ottusa la reazione delle autorità che se ne dichiarano sbalordite- ma è ovvia, e confermata non solo dalla storia del terrorismo jihadista, dal magnate Bin Laden all’ingegner Mohammed Atta in giù, bensì da tutta la storia delle tentazioni di rifare il mondo da zero, a costo della vita. Per giunta nel loro Islam la vita non è un costo ma un guadagno, differenza cruciale.
Il punto è il rapporto che quei bravi ragazzi stabiliscono con la moltitudine anonima nel cui nome agiscono. Nel Bangladesh quella moltitudine è per molti versi mite, nelle baracche in cui taglia e cuce, nelle casupole degli slum ciascuna con la Singer a nolo, nella miriade di infimi commerci che costellano le strade –o nelle botteghe che vendono a noi la frutta giorno e notte.
Pochi popoli sopportano così docilmente una così schiacciante povertà, ma la povertà è cattiva consigliera e anche lo spettacolo esorbitante della corruzione. Uno stipendio come quello che il Califfato promette ai suoi statali eccede favolosamente quello di un ufficiale di polizia bengalese. Di più importa che la ferocia sanguinaria degli assassini islamisti può ripugnare, ma le ragioni che inalberano –lo scandalo dell’ateismo o dell’omosessualità o dell’avidità degli stranieri- sono capaci di persuadere o almeno di far vacillare il giudizio comune.
La signora primo ministro deplora gli assalti omicidi a colpi di machete, ma avverte che bisogna riverire il Corano e guardarsi dal ferire i pregiudizi costumati e dal crimine del “sesso non naturale”. Se la sono cercata, insomma. E la signora è la “laica” nemica giurata di un’altra signora, Khaleda Zia, l’una orfana di un padre l’altra vedova di un patrigno della patria, e alleata, la seconda, del partito islamista. Forse nella dilapidazione di militanti come quelli del Holey Artisan Bakeri, che sarebbero stati preziosi nel reclutamento e nell’organizzazione, si può ancora vedere il segno di una provvisoria fragilità: non si voleva rinunciare al Ramadan e al Venerdì, e al clamore che offrivano.
Ecco un’altra discussione oziosa, se gli assassini bengalesi siano o no affiliati e collegati alla cupola dell’Isis: affiliati sono senz’altro, a collegarli basta e avanza la rete. Dentro il ristorante, hanno avuto –gli è stato lasciato- il tempo di trasmettere sé e la propria impresa coi telefonini degli ostaggi e il computer della cucina. Il negazionismo, o la minimizzazione tenuta fin qui dal governo di Hasina Sheikh, non regge più, e del resto poco prima si era fatto sfoggio dell’arresto di quasi dodicimila persone –i sospetti jihadisti erano uno su cento. In quello stesso governo un influente ministro si era spinto a indicare Israele dietro la sequela di macellazioni di strada. Ora il governo ricorre all’argomento opposto a quello abituale di chi vuole esorcizzare una minaccia o un’infamia: il terrorismo, dice, è tutto nostro, interno, senza legami con l’estero. Sappiamo impedire le infiltrazioni, vuole dire: ma la minaccia sta proprio lì, nel pullulare di reclutamenti spontanei, pronti a unificarsi dentro e fuori dei confini.
Ci si sta compiacendo anche di dare per spacciato l’Isis nel suo parastato –Siria, Iraq e Libia- e di vedere nell’ondata di attentati una conferma della sua sconfitta. La sconfitta deve ancora venire, ma non è il punto. Il punto è che senza il richiamo del sedicente Califfato, del suo Stato e della sua ferocia trionfale, questa epidemia terrorista che infesta la terra non sarebbe venuta.
Sono in molti, troppi, nel nostro mondo, “l’occidente”, a rifiutare vanitosamente l’uso della forza e a motivarlo con il suo universale fallimento.
“Tranne la Bosnia”, ammette a denti stretti qualcuno (ce n’è che nemmeno la Bosnia…). E il Sinjar degli yazidi? E la Kobane delle curde e dei curdi?
Che cosa ne sarebbe stato senza i bombardamenti –tardi, eh!- della cosiddetta coalizione? Un’altra faccia della questione manca sempre in questo superstizioso rigetto dell’uso della forza, magari attribuito alla povera Costituzione: manca un ragionamento fatto sugli effetti, oltre che degli abusi, dell’omissione. Srebrenica fu già un effetto dell’omissione, Sarajevo sarebbe ancora un poligono di cecchini. Lo sono stati il Ruanda, il Darfur, e la Siria di cinque anni.
Si lasciava che il Califfato montasse grandiosamente come l’invincibile e spietato cavaliere nero, e ci si tirava addosso l’esodo di milioni di esseri umani e l’avvento di centinaia e migliaia di terroristi invasati. Sarebbe successo comunque, dite? Ecco un fatalismo degno di un sergente jihadista. Infine: c’è un nostro connazionale che ha dovuto assistere impotente all’assassinio e all’umiliazione di sua moglie, e infinita è la solidarietà e la compassione per la sua sventura. E c’è un ragazzo musulmano che ha rifiutato di salvarsi la vita staccandosi dalle due amiche “infedeli” con cui era andato a cena. Martire di niente, se non di uno stile di vita. Un esempio incomparabile, nelle banlieues.

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