Francamente sono rimasto sorpreso dai primissimi commenti post elettorali di Renzi, che veramente hanno ricordato quelli dei vecchi democristiani e le loro dichiarazioni post sconfitta dove però si asseriva "il partito tiene". Per non sembrare matto, il segretario PD si è aggrappata all'unica tabella utile, quella della conta finale dei comuni con più di 15.000 abitanti andati al voto, dove risultavano eletti 67 sindaci di sinistra, 59 di centro destra, 8 i 5 stelle e 20 le liste civiche.
Peccato che :
1) rispetto alle precedenti amministrative, il centrosinistra abbia perso 14 sindaci (erano 81, e quindi adesso 67, il numero che piace a renzino) mentre il centro destra ne ha guadagnati 18 (gli ortotteri, che se arrivano ai ballottaggi sono quasi dei killer... per fortuna ci arrivano poco, registrano un +5).
2) nei capoluoghi le cose a sx vanno ancora peggio : nei 25 in cui si è votato passa da 16 a 6 (il centro destra fa specularmente l'opposto : da 6 a 16)
3) in alcuni casi si parla di sconfitte "sanguinose", in primis Genova, senza contare il cappotto lombardo, e le defezioni in quello che un tempo era il triangolo rosso - Liguria Toscana Emilia Romagna - con nessun sindaco eletto nei comuni oltre 15.000 abitanti nell'Emilia, la perdita di La Spezia (oltre la citata Genova) in Liguria, Pistoia e Carrara in Toscana (e Lecce è stata salvata per un soffio)
4) il tutto condito con un calo generale di elettori del centro sinistra, rifugiatosi per lo più nell'astensione (che non è più tanto "figa e moderna" ora che morde i polpacci di casa).
Quest'analisi non è partigiana, scaturisce dai numeri, ostinati, ed è la stessa di persone critiche ma non pregiudizialmente ostili al segretario Dem, come Veltroni, Orlando, Prodi (che ha avuto infatti la sua pizzicata, a cui ha prontamente replicato, ché l'uomo è di una permalosità da medaglia olimpionica) ma anche Franceschini, che di Renzi è pure alleato all'interno del partito.
Ovunque, fuori dal fortino arroccato del Nazareno, si chiede il "cambio di passo", che il toscano invece non sembra proprio voler fare, anche perché lui resta in politica solo per tornare a Palazzo Chigi e quindi figuriamoci se può prendere in considerazioni coalizioni e/o listoni che al primo posto hanno come condizione un premier diverso da lui.
Di seguito riporto il commento post elezioni di Antonio Polito, che condivido sostanzialmente per quanto riguarda l'analisi del risultato delle tre forze in campo. Trovo anche interessante la conclusione, che ha una sua suggestione. Polito parte da una constatazione : oggi come oggi nessuna forza politica ha la certezza che con un determinato sistema elettorale avrebbe buone possibilità di vittoria, semmai sanno che con il proporzionale nessuno vincerà, mentre il potere di veto, anche finendo secondi, o addirittura terzi (ma minimamente consistenti) avrebbe una sua valenza, anche decisiva.
Insomma, non governo io, ma nemmeno tu.
Siccome le cose stanno così, anche Polito auspica che si finisca per fare una legge che dia una chance alla governabilità, premiando quello che prende più voti, tenuto conto che nessuno dei tre può , come detto, essere certo di farcela ma nemmeno il contrario.
Sono d'accordo, ma con giudizio.
Un partito, o una coalizione, che arrivi primo con una percentuale adeguata di votanti (e di partecipanti al voto), può avere un premio di maggioranza. Questo peraltro è già previsto, nel sistema sopravvissuto al vaglio della Consulta dell'Italicum : se arrivi al 40% prendi il 55 (o 53?)% dei seggi. Nessun partito oggi riuscirebbe a raggiungere quel traguardo, ma forse una coalizione sì, e comunque sotto quella soglia non si può andare.
Le tre carte dei leader
di Antonio Polito
Il gioco elettorale delle tre carte continua, e davvero non
si capisce come possa finire. Un giorno credi che l’Italia sia pronta a
consegnarsi nelle mani di Grillo, il giorno dopo scopri che ha nostalgia di
Berlusconi, e ti sembra appena ieri che si era buttata nelle braccia di Renzi.
Lo sconfitto di turno dice sempre che è colpa della «macchia di leopardo», un
test amministrativo troppo disomogeneo e senza valore politico (anche se
stavolta sarebbe più giusto definirlo a «macchia di giaguaro», visto il ritorno
di Berlusconi, evidentemente non ancora «smacchiato»). Il vincente di turno
invece dice sempre che «è girato il vento», e cerca nel voto dei Comuni i segni
di un cambiamento epocale destinato a durare nel tempo. In realtà un po’ di
vento domenica s’è sentito: l’elettorato di centrodestra si è mostrato ancora
una volta più coriaceo e unito dei suoi capi, e più omogeneo di quello del
centrosinistra. Sulle battaglie culturali, come lo ius soli, si ritrova; contro
la sinistra, multiculturale e tollerante, si mobilita.
Questi grandi temi
contano anche nei piccoli Comuni: a Sesto San Giovanni il centrodestra ha fatto
la campagna elettorale con lo slogan «no alla nuova moschea, sì a un nuovo
commissariato».
E ha conquistato la ex Stalingrado della sinistra lombarda,
insieme a molti dei suoi elettori più popolari.
Ora a destra tutti dicono «uniti si vince». Vero. Ma uniti
per cosa e guidati da chi? Questo è il problema. Con il Ppe o con la Le Pen ? Col proporzionale o
col maggioritario? Con la ruspa o in doppiopetto? Il cemento del successo può
fare molto per rimettere insieme i cocci, a destra vincere conta più che a
sinistra, ma come si vince in epoca di tripolarismo? E, soprattutto, come si
governa poi, se ci si limita a incollare i cocci? Il centrodestra è ben lontano
dall’avere un’anima politica, senza una leadership moderata non vince, senza
l’elettorato arrabbiato non vince. Ma sta decisamente meglio di un mese fa,
quando lo si diceva deceduto.
Il centrosinistra è in guai peggiori. Perde in tutte le
versioni: in quella prêt-à-porter di Renzi che fa l’uno contro tutti e si
schianta al referendum; in quella vintage resuscitata da Pisapia e Prodi, campo
largo e coalizione, più sinistra e meno centro, che si è inabissata a Genova; e
in quella rosso antico che cede al nemico posti mitici come Pistoia e Carrara.
Da qualche tempo in qua gli elettori di centrodestra e quelli grillini mostrano
di potersi sommare pur di battere Renzi, ma non accade mai il contrario. Il Pd
è maledettamente solo.
Adesso in molti diranno al segretario che il problema è lui,
che si è rotta la sua relazione sentimentale col Paese, e che il centrosinistra
deve dunque scegliersi un altro candidato premier per tornare a vincere. Renzi
conterà i voti di chi gli fa la lezione, non molti, e risponderà picche. A
peggiorare le cose per il Pd ci sono due appuntamenti autunnali finora
sottovalutati: a ottobre più di dieci milioni di elettori lombardi e veneti
sono stati chiamati a un referendum per l’autonomia dai due leader leghisti
senza felpa, Maroni e Zaia, e se rispondono possono rifondare il centrodestra;
mentre a novembre vota la
Sicilia , cassaforte elettorale del M5S che potrebbe
conquistare l’isola, mettendo così fine alle chiacchiere premature sulla sua
scomparsa.
Il Movimento infatti continua ad avere un elettorato ampio e
resistente all’usura, cui pure viene quotidianamente sottoposto dalle lotte
intestine. Gli manca solo disciplina, responsabilità, unità interna e
credibilità di governo. Tutte cose che non si acquistano se non ci trasforma in
un vero e proprio partito, mettendo in condizioni di non nuocere l’ala
movimentista. Operazione di una certa difficoltà per chi è nato da un «vaffa».
Al momento è impossibile capire quale equazione possa mai
risolvere questo rebus, anzi tribus, della vicenda politica italiana, dominata
da tre protagonisti tutti troppo deboli per vincere ma tutti abbastanza forti
per impedire agli altri due di farlo.
Ed è questa la ragione per cui ogni volta
che si parla di elezioni in Italia l’Europa trema e i mercati si
innervosiscono. Sommato all’enorme debito pubblico, l’enigma politico è il vero
e proprio tallone d’Achille di un Paese che forse potrebbe perfino ritrovare la
via di una crescita un po’ più effervescente, dopo tanto soffrire e languire.
Per questo ai protagonisti di questo stallo che dura ormai
da anni noi cittadini dobbiamo chiedere due cose. Primo: tenere al riparo le
istituzioni, il governo in carica e l’interesse nazionale dalla loro contesa,
non rimettendosi a correre verso elezioni anticipate che a questo punto
saprebbero tanto di un rilancio al buio nel poker. Secondo: approfittare del
«velo dell’ignoranza» in cui oggi tutti ci troviamo, non sapendo chi può
vincere l’anno prossimo, per fare una legge elettorale onesta ed equanime e
che, senza trucchi e senza inganni, dia una spinta decisa alla governabilità a
vantaggio di chi avrà più voti. In questa materia miracoli non se ne possono
fare (neanche l’iper-maggioritario inglese ne fa); ma qualcosa di sensato e di
efficace si può e si deve fare. Poi, una volta fatta, ricomincino pure a
darsele di santa ragione.
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