Ernesto Galli della Loggia è stato uno dei tanti, importanti opinionisti infatuati di Matteo Renzi e che ora sono delusi
E' successo a molte persone, compreso chi scrive, che lesse con interesse e favore il primo libro del futuro premier . "FUORI".
Alcuni però si sono accorti prima che renzi non era il "nuovo" che avevano fatte sperare le prime due Leopolde, ed attenti e conosciuti osservatori, come Luca Ricolfi e Davide Giacalone, iniziarono a scrivere che anche questo "re" era "nudo".
Galli della Loggia, e ci metterei anche il professor Panebianco, hanno perseverato nella fiducia, pur segnalando, qua e la, che in effetti si potesse far meglio, ma in fondo il migliorismo non è il nemico del bene ?? E così hanno continuato a tifare per il toscano, fino al fatidico 4 dicembre. La pessima reazione alla peraltro micidiale tranvata presa dal putto e dal suo giglio magico hanno profondamente deluso i due grandi politologi, che si sarebbero aspettati ben altra, più dignitosa reazione.
Galli della Loggia usa parole durissime per biasimare la sete di potere per il potere dimostrata da Renzi dopo la sconfitta, certo non camuffata dalle inevitabili dimissioni da Primo Ministro (il minimo, da chi aveva giurato che se avesse perso si sarebbe ritirato addirittura dalla politica !) o dalla segreteria del Pd. In realtà l'uomo non ha mai mollato la presa e si è dato da subito un gran da fare sia per recuperare la preminenza nel partito, che per tornare a Palazzo Chigi. La prima cosa gli è riuscita, ma non sembra troppo bene, la seconda ancora no e in generale l’uomo sembra aver perso il suo abbrivio vincente.
Certo il quadro generale non è entusiasmante, come
correttamente Galli della Loggia non manca di rimarcare. Ma se giustamente gli
avversari sembrano nani, Renzi è Brontolo.
La politica e il non voto
lo spirito inquieto del Paese
lo spirito inquieto del Paese
di Ernesto Galli della Loggia
Quale messaggio hanno ricevuto dopo il 4 dicembre
gli Italiani da Matteo Renzi? Cioè da colui che nel 2013 si era affacciato
sulla scena nazionale sconvolgendola con un’immagine e un messaggio in grande
parte nuovi, da colui che per tre anni aveva governato il Paese con un’inedita
sebbene scemante incisività, che infine aveva deciso di dare un esito
culminante a questa sua parabola puntando tutto su una rilevantissima riforma
costituzionale? Che cosa hanno saputo di lui, e da lui, fino a oggi, dopo la
clamorosa sconfitta che quel 4 dicembre lo ha costretto a lasciare Palazzo
Chigi? Essenzialmente una cosa sola: che in realtà Matteo Renzi non voleva
rinunciare affatto al potere perduto e intendeva ritornare al più presto al
governo. Non importava molto in quale modo, anzi in ogni modo: tenendo lui a
battesimo, o meglio al guinzaglio, il ministero Gentiloni; ribadendo il suo
pieno dominio sul Partito democratico, sulla Rai e su tutto; affrettando il più
possibile le elezioni; essendo disponibile a leggi elettorali anche assai
diverse; lasciandosi le mani libere per ogni eventuale alleanza presente o
futura. Insomma il giovane leader che si era presentato al Paese dicendosi
disponibile solo per fare certe cose, per una sola politica, ora non si sapeva
più che cosa intendesse fare, quali programmi avesse in mente se non ritornare
al potere. E a tutt’oggi non si sa. Dal 4 dicembre Renzi, infatti, non è stato
più capace di dire nulla al Paese.
È come se il non aver avuto il
coraggio di parlare in modo approfondito della
propria sconfitta e dei suoi motivi, non aver avuto il coraggio di apparire un
vinto alla platea che fin dall’inizio era stata davvero la sua — quella della
più vasta opinione pubblica — gli abbia anche impedito di cercare la vera
rivincita lì dove solo poteva ottenerla. Invece dopo il 4 dicembre i suoi unici
interlocutori sono divenuti gli altri politici. Neanche durante la campagna per
le primarie democratiche è riuscito a trovare qualcosa dell’empito antico,
dell’antica capacità di convincere.
La kermesse del Lingotto è stata la stanca
ripetizione del già visto. Gli stessi riti, lo stesso battutismo, le stesse
formule, e quasi sempre le stesse facce. Nessuna idea o proposta nuova capace
di produrre interesse, sorpresa, mobilitazione. Di far scorgere il segnale di
un nuovo inizio. È questo remake che sta perdendo l’ex presidente del
Consiglio, o che forse ormai lo ha già perduto.
Ci sono sconfitte da cui alla
fine si può uscire vincitori, altre che invece ridimensionano per sempre. È
quest’ultimo caso ciò che sembra essere successo a Matteo Renzi: il 4 dicembre
ha avviato la sua trasformazione da uno statista potenziale a una promessa
mancata. Ma i suoi avversari e concorrenti non si illudano: se Renzi è stato
ridimensionato loro sono restati i nani che erano.
Sicché oggi, mentre la crisi del
renzismo riaccende la rissa generale, mentre perciò si
rianimano le ambizioni di tutte le mosche cocchiere e di tutte le rancide
vecchie glorie che a sinistra vaneggiano di coalizioni miracolose, al centro
sognano di Grandi Centri e a destra di clamorosi ritorni, lo spirito del Paese,
invece, si rinchiude sempre di più in una inquietudine senza speranza che
colpisce le opinioni più diverse.
È l’inquietudine disperata di chi non riesce
a vedere in nessuna parte politica la consapevolezza della gravità del declino
italiano, né alcuna proposta credibile per farvi fronte, né alcuna serietà di
propositi e soprattutto alcuna leadership all’altezza del compito che i tempi
imporrebbero.
È una disperazione muta che va oltre la tradizionale divisione
tra Destra e Sinistra per lasciare spazio solo a un interrogativo comune: dove
rivolgersi con un minimo di fiducia? In chi sperare? Nell’impossibilità di
trovare una risposta l’unico esito è la crescita progressiva del numero di
coloro che non vanno più a votare.
La verità è che dopo appena vent’anni dalla
fine del sistema politico che aveva caratterizzato il primo mezzo secolo della
Repubblica, oggi si sta virtualmente disarticolando pure il secondo che gli era
succeduto nel 1994-96. Alla fine delle ideologie novecentesche non siamo stati
capaci di sostituire alcuna nuova idea del Paese, alcuna nuova narrazione del
suo passato così come alcun nuovo progetto circa il suo futuro. E così una
crisi si somma all’altra: a quella delle idee quella dello strumento partito.
Delle prime non c’è più alcun segno di vita, dei secondi rimangono solo i loro
simulacri rappresentati dai cosiddetti partiti personali (quelli attuali lo
sono tutti): in pratica una coorte di seguaci tenuti insieme dal vincolo della
convenienza/fedeltà destinato a durare finché dura la fortuna del capo. Ciò che
ne risulta è sotto gli occhi di tutti: una vera e propria desertificazione
politica dove esiste unicamente il giorno per giorno, che rende impossibile
qualsiasi leadership autentica.
Forse non è un destino solamente
dell’Italia. Ma da noi come sempre le conseguenze
sono più gravi. Al vuoto delle idee e all’assenza dei partiti noi non abbiamo,
infatti, la possibilità di supplire con l’iniziativa di solide istituzioni e di
élite prestigiose e riconosciute, in grado come in Francia di fare blocco e di
«inventarsi» dal nulla una leadership tipo quella di Macron, autentico Manchurian
candidate arrivato al successo grazie ad uno straordinario colpo di
fortuna. Da noi la desertificazione politica significa solo da un lato ancora
maggior potere alle lobby e alle corporazioni di ogni genere, sempre più
autorizzate a fare quello che vogliono, dall’altro il via libera alle genuine
pulsioni di una società «civile» che non ha fatto mai gran conto né dello Stato
né dell’interesse collettivo. In entrambi i casi non proprio un gran bel
viatico per il futuro.
Da quando ho sentito il suo modo di affrontare i temi e i problemi del nostro paese,ho sempre espresso, che lo sbandierato nuovo è il nulla. L'Io che ripete, può essere l'approdo per risolvere i nodi strutturali che segnano il declino del nostro paese? L'analisi dei politologi,( tutti prof.) che hanno dipinto i partiti, come il cancro delle istituzioni, senza riscontrare che sono, senza la presenza umana, entità astratte, vuote, e la visone,i progetti, per lo sviluppo del paese possono essere raggiunti da una classe di rappresentanti nelle istituzioni in grado di indicarne gli obbiettivi. Devo ripetermi e al riguardo, leggete il discorso di SARAGAT alla assemblea Costituente e nli troveretye il nuovo.
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