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lunedì 4 settembre 2017

FINE PENA MAI ? NO, FINE PENA ORA !

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Nel leggere il bel libro di Elvio Fassone, "FINE PENA : ORA",  il pensiero che mi tornava più spesso era che sarebbe più coerente reintrodurre in Italia - in molti paesi nel mondo c'è ancora, esattamente 58, mentre in altri 27 è astrattamente prevista ma di fatto non applicata - la pena di morte.  Gli italiani la vogliono - nel 1981 fu bocciato fragorosamente il referendum proposto per l'abolizione dell'ergastolo, con il 77% di NO e quasi l'80% di votanti ! , e non credo proprio che queste percentuali, pur passati 35 anni, si siano modificate - e parlamentari e governanti non sono certo disponibili a sfidare cotanta folla (anzi, le invenzioni di  feminicidio, omicidio stradale, la neutralizzazione della prescrizione, sono chiari segnali di come si preferisca accarezzare per il suo verso la bestia).
Ebbene, nel leggere la storia del patimento di un uomo, un criminale, diciamolo subito, che finisce in carcere all'età di vent'anni e non ne esce praticamente più, salvo qualche permesso e accesso sporadico (tutti i provvedimenti attenuativi sono sempre revocabili) a istituti quale il lavoro fuori dal carcere, per 30 anni, pensavo questo : meglio morire.
Infatti, ad un certo punto, lo pensa pure Salvatore, il protagonista del libro, che tenta di suicidarsi ( e l'autore del libro, pensa che ci riproverà...magari lo ha scritto anche per dissuaderlo ).
Una ribellione vincente, l'unico modo per trasformare quel "fine pena mai", la formula agghiacciante che descrive l'ergastolo, in "fine pena ora", appunto il titolo del libro.
Era stato proprio la titolazione a colpirmi, ancorché penso che la stessa non susciterebbe uguale suggestione in persone che non conoscono il processo penale, i suoi riti, le sue possibili conclusioni e formule.
Leggendo poi il sunto di copertina, sfogliando un po' le pagine del libro, mi sono convinto ad acquistarlo .
La storia è semplice ancorché assolutamente inconsueta : un giudice ( che è l'autore stesso del libro) processa e condanna Salvatore all'ergastolo, giovane boss mafioso di un clan catanese, comminandogli la pena dell'ergastolo. Durante il processo s'instaura tra giudice e imputato una sorta di filo, sorto da una applicazione umana delle regole da parte del primo e il conseguente rispetto per l'uomo delle istituzioni da parte degli imputati, e in specie del loro capo,
Dopo la condanna, al Giudice viene il pensiero di scrivere una lettera a quell'imputato strano, colpevole di crimini gravissimi, compresi degli omicidi, che lo ha colpito con una frase pronunciata non con rabbia ma con calma tristezza durante un colloquio: se suo figlio fosse nato dove sono nato io, e io al posto suo, forse oggi ero io avvocato e lui nella gabbia.
Non c'è controprova, e non tutti i giovani cresciuti nel "Bronx" di Catania sono divenuti delinquenti, però la biografia di Salvatore, con un fratello maggiore e idolatrato morto giovanissimo, fa riflettere il Giudice, che alla fine prende la penna e scrive.
Una lettera semplice, contenente esortazioni in fondo banali, tipo non perdere la speranza, comportarsi bene e avviare un percorso di recupero che potrà, nel tempo (molto tempo), ricondurre Salvatore fuori dalla prigione. Probabilmente non è ciò che viene scritto, ma la sorpresa assoluta del mittente a colpire il boss e a spingerlo a rispondere, in modo grato e cortese, ancorché vastamente sgrammaticato.
Inizia così una lunga corrispondenza durata ben 26 anni, fino al tentativo di suicidio di Salvatore (ma ci piace pensare che l'ex giudice Fassone abbia poi continuato, anzi ne siamo sicuri), e attraverso la narrazione di questi anni, l'Autore ci dà uno spaccato illuminante di alcune realtà carcerarie, del funzionamento, teorico e reale, dei vari istituti attenuativi, dell'ignavia, quando non pavidità, dei soggetti che hanno in mano la vita dei detenuti : direttori, giudici di sorveglianza, del riesame .
Il drammatico gioco dell'oca cui è sottoposto Salvatore, che fa di tutto per rendere umana la propria vita in carcere - studiando, imparando mestieri, leggendo, scrivendo poesie elementari ma toccanti - e guadagnarsi un po' di libertà, riuscendoci a tratti per essere poi ricacciato indietro da eventi esterni che lo schiacciano nonostante la sua estraneità agli stessi, suscita rabbia ed angoscia a chi legge.
Figuriamoci a chi lo subisce.
Ma Salvatore è un criminale, ha ucciso più persone, MERITA la sua pena.
Allora uccidiamolo. Subito.
Così i conti li pareggiamo e la si fa finita.
Così si rischia di sfiorare la tortura, e non è accettabile.
Anche perché è di tutta evidenza che il Salvatore del carcere, negli anni, diventa un uomo completamente diverso dal giovane assassino condannato, giustamente, per i suoi delitti.
Scontata quindi una pena congrua, comunque dovuta a prescindere dal pentimento e ravvedimento del colpevole, perché non prendere atto, quando c'è, del cambiamento della persona ?
In effetti questo avviene, ed è il motivo per il quale individui come  Mambro e Fioravanti, condannati all'ergastolo (il secondo ne ha collezionati otto, uscendo dopo 29 anni di carcere effettivo), oggi sono in regime di libertà, ma sono troppi i casi di ripetute ingiustizie - come detto dovute a distrazione e/o pavidità - come quelle descritte da Fassone.
Riporto queste righe :
E' incredibile come esiti di frustrazione e sofferenza si producano anche senza che una volontà malvagia li voglia : non c'è bisogno di essere crudeli, basta un'applicazione asettica di regole senza pensare ai possibili effetti secondi , basta una prudenza un po' rancida all'insegna del non volere grane, il rifugio anestetico nelle procedure , la prudenza elevata a sapienza, e le carte dei protocolli restituiscono l'individuo al ruolo kafkiano di quello che attende davanti ad una porta chiusa di cui nessuno ha la chiave.
Parole da scolpire su una targa di marmo, da appendere come memento nelle stanze di lavoro di  tutti coloro che fanno i giudici e/o comunque decidano, in qualche misura, della vita di altre persone.

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Fassone,  nel cercare di spiegare, con pacatezza e nessun furore ideologico, le ragioni di "Caino" (bella la pagina dedicata al recupero delle parole della "Nemesi", in cui Dio condanna sì l'assassino di Abele, ma lo "segna" perché gli uomini non lo uccidano, consentendogli una vita di espiazione ma anche riscatto : "Caino divenne costruttore di città", nonché capostipite di varie generazioni di uomini...). non dimentica Abele, la sofferenza delle vittime e dei loro cari. E cerca di compenetrare le opposte esigenze : punizione e risarcimento, perdono e ravvedimento.
Chiudo con la preghiera immaginaria di Salvatore a Dio :
"...Ma tu ci sei poi davvero ? o siamo noi che ci illudiamo per non crepare di disperazione ? ...
No, Dio Signore, fa che ci sei , te lo chiedo per favore, fa che ci sei e se esco vado a portare i fiori sulla tomba di Orazio".

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