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lunedì 12 febbraio 2018

RENZINO VEDE L'ABISSO

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Federico Geremicca, giornalista che, come praticamente tutti quelli de La Stampa, nutriva (nutre ancora ? un po' sì direi) una forte simpatia politica per Matteo Renzi, nota una qual certa contraddizione nel fatto che il rottamatore del Senato ( una delle varie cose da rottamare) alla fine si candidi, lui e i suoi pretoriani, proprio alla Camera Alta. 
Ovviamente Geremicca è giornalista troppo smaliziato per non trovare subito una spiegazione alla scelta del segretario PD, e cioè la scommessa che, alla fine della fiera, siano più decisive le poltrone del Senato rispetto a quelle della Camera. 
Nella seconda Repubblica in effetti è stato per lo più così, ma i sistemi elettorali erano diversi e tali che era più facile, per le coalizioni più votate, ottenere maggioranze solide a Montecitorio, mentre in ben tre occasioni (1994, 1996 e 2006) al Senato la situazione restava precaria. 
Stavolta i sondaggi, per quel che valgono, prevedono meno arduo - per il centro destra, l'unico che potrebbe forse farcela - raggiungere la maggioranza dei seggi a Palazzo Madama.
E quindi ? Ci sarebbe un piano B, una exit strategy nel caso Renzi  perdesse il PD : costituire un nuovo soggetto politico partendo dagli eletti in Parlamento.
Certo, a quel punto vedremmo quanti "fedelissimi", quelli paracadutati nei posti migliori ( o meno peggiori) delle liste, che tante polemiche hanno suscitato, saranno poi veramente tali. 
A parte questo rilievo, Geremicca concorda con renzino sul fatto che per lui la strada è oltremodo in salita, con troppi elettori che lo hanno abbandonato dopo la fascinazione del 2014 (europee e 41%), rimproverandogli di essere troppo di sinistra su temi come l'immigrazione ( e per sua fortuna lo ius soli è stato rimandato), o troppo poco (sempre sulla questione migranti, ma anche sulle politiche del lavoro). 
Episodi come quelli di Macerata, con la maggioranza degli italiani che non scende in piazza ma è convinta che gli sbarchi debbano cessare, senza se e senza ma, e una rumorosa minoranza che evoca derive razziste di stampo fascista, non aiutano affatto il putto toscano, che sta in mezzo al guado. 
In realtà il problema è complesso, non di semplice soluzione.
Però è anche grave, e la gente tende a semplificare in bianco e nero : muro o accoglienza. Il grigio renziano ( come lettura del fenomeno, sulle soluzioni mi sembra che non ci siano strategie condivise) è realistico ma non fa voti. 

In altra parte del giornale, si parla addirittura di un disastroso 20% per i democratici.
Confesso che, istintivamente, per la scarsa simpatia accumulata dal'ex sindaco di Firenze in questi 4 anni di segreteria PD, sarebbe un risultato che mi darebbe un brivido di soddisfazione.
Un gran gusto vedere in che modo l'assai poco modesto uomo politico si presenterebbe a spiegare il tracollo. 
Poi però mi ricordo che il PD di stampo renziano è un male decisamente minore rispetto alla Ditta di bersaniana memoria, dove la sinistra aveva asfaltato i riformisti centristi della Margherita. 
E quindi, alla fine, confido che Renzi la sua linea di galleggiamento, stabilita al 25% (Bersani nel 2013), la raggiunga. 
Ultima cosa. La Lorenzin, inventrice di Civica Popolare, dove credo alberghi pure Cicchitto e altri peones della sfaldata truppa alfaniana, sembra proprio non farcela ad arrivare almeno all'1%.
E queste, almeno queste, so belle cose. 


LaStampa.it



IL SENTIERO STRETTO DI MATTEO


FEDERICO GEREMICCA

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Matteo Renzi non è contento. Giunti ormai a tre sole settimane dal voto, infatti, la campagna elettorale non cambia verso, ogni nuovo avvenimento (si pensi ai fatti di Macerata) pare moltiplicare le difficoltà del Pd e soprattutto - lamenta il segretario - «tutto è usato contro di me». Annotazione, quest’ultima, senz’altro vera: e che pare il contrappasso di quel che accadeva appena tre anni e mezzo fa, quando il 40% ottenuto alle elezioni europee certificò un consenso ed un pubblico sentire secondo il quale qualunque cosa Renzi dicesse o facesse era quella più innovativa, sensata e giusta da fare.
  
Quanta acqua sia passata sotto i ponti da quel maggio 2014 a oggi, è cosa nota. Meno pubbliche e conosciute, forse, sono invece le ultimissime preoccupazioni del leader dei democratici, che arrivano soprattutto dal continuo monitoraggio di sondaggi e orientamenti dell’opinione pubblica. Le rilevazioni commissionate dal Pd confermano - e in alcuni casi amplificano - le forti difficoltà segnalate da tutti gli istituti di ricerca: con un paio di soglie di sicurezza già infrante o vicine all’esser abbattute. 
  
La prima è quella che riguarda il possibile risultato proprio dei democratici, oggi stimati al di sotto di quanto ottenuto dal Pd di Bersani nel 2013; la seconda è quell’uno per cento che le liste alleate devono assolutamente superare affinché i voti ottenuti non finiscano letteralmente al macero, non determinando l’elezione di alcun parlamentare: e quell’uno per cento, al momento, verrebbe superato solo da «+Europa» di Emma Bonino.
  
Un quadro tutt’altro che rassicurante, dunque. E una tendenza, per di più, che pare difficilissima da invertire anche in ragione di quel «tutto è usato contro di me». A colpire Matteo Renzi, in particolare, è stata l’evoluzione dei fatti di Macerata, cominciati con colpi di pistola contro dei giovani di colore e contro la sede del Partito democratico e finiti con un corteo organizzato da movimenti di sinistra e trasformatosi in una dura manifestazione contro il governo ed il Pd: «Sparano contro le nostre sedi e contro gli immigrati - ha annotato Renzi - e invece di prendersela con Salvini accusano me».
  
Il fatto è che, nonostante il tentativo del segretario Pd di abbassare i toni e denunciare speculazioni politiche, l’ex rottamatore si è ritrovato nuovamente stretto (ma stavolta alla vigilia del voto) nella solita e micidiale tenaglia che minaccia, da sempre, la sinistra di governo: da una parte i settori più moderati e spaventati del Paese che chiedono «regole dure» contro l’immigrazione clandestina; dall’altra il variegatissimo mondo della sinistra che contesta, appunto, le «regole dure» varate quest’estate dal ministro Minniti (che oggi, con evidenti rischi di contestazione, sarà a Firenze per un’iniziativa elettorale proprio con Matteo Renzi).
  
La tendenza, insomma, è quella che è: e al di là dell’annotazione che dall’avvio della Seconda Repubblica a oggi mai una maggioranza di governo è stata poi riconfermata alle elezioni, invertirne il segno appare quanto mai complicato. Non a caso, sono settimane che Matteo Renzi riflette e pensa alle possibili mosse in un dopo-voto che dovesse vedere il Pd seccamente battuto. Le liste elettorali - che tante tensioni hanno determinato nel Pd - sono state per esempio costruite guardando appunto al 5 marzo e alla necessità di avere gruppi parlamentari di «fedelissimi». E non è l’unica mossa che pare esser stata compiuta guardando ad un futuro che si annuncia burrascoso.
  
Non si è forse ragionato a sufficienza, per esempio, su una scelta assai sorprendente effettuata da Matteo Renzi: quella di candidarsi al Senato, dopo una lunghissima campagna referendaria impegnata a dimostrare - tra l’altro - quanto quella Camera fosse inutile, costosa e perfino dannosa per il buon funzionamento del sistema democratico. Cambiare idea non è, ovviamente, un delitto: ma in questo caso la conversione del segretario Pd è stata tanto convinta e fulminante da spingerlo a candidare al Senato quasi tutti i suoi cosiddetti «fedelissimi» (Boschi e Lotti esclusi, crediamo, solo per motivi di età). Singolare.
  
E a qualcuno, infatti - soprattutto nel Pd - questa scelta è apparsa né neutra né casuale. Così, i sospetti si sprecano. Il gruppo di «fedelissimi» voluto al Senato - si ipotizza - potrebbe trasformarsi nel «nucleo fondativo» di un nuovo soggetto politico, nel caso Renzi dovesse perdere la sua battaglia nel partito, se sconfitto alle elezioni. E qualcun altro aggiunge: quel drappello di senatori è destinato a costituire una sorta di «opposizione di blocco» capace di condizionare nascita e morte di qualunque governo.

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