Federico Geremicca, giornalista che, come praticamente tutti quelli de La Stampa, nutriva (nutre ancora ? un po' sì direi) una forte simpatia politica per Matteo Renzi, nota una qual certa contraddizione nel fatto che il rottamatore del Senato ( una delle varie cose da rottamare) alla fine si candidi, lui e i suoi pretoriani, proprio alla Camera Alta.
Ovviamente Geremicca è giornalista troppo smaliziato per non trovare subito una spiegazione alla scelta del segretario PD, e cioè la scommessa che, alla fine della fiera, siano più decisive le poltrone del Senato rispetto a quelle della Camera.
Nella seconda Repubblica in effetti è stato per lo più così, ma i sistemi elettorali erano diversi e tali che era più facile, per le coalizioni più votate, ottenere maggioranze solide a Montecitorio, mentre in ben tre occasioni (1994, 1996 e 2006) al Senato la situazione restava precaria.
Stavolta i sondaggi, per quel che valgono, prevedono meno arduo - per il centro destra, l'unico che potrebbe forse farcela - raggiungere la maggioranza dei seggi a Palazzo Madama.
E quindi ? Ci sarebbe un piano B, una exit strategy nel caso Renzi perdesse il PD : costituire un nuovo soggetto politico partendo dagli eletti in Parlamento.
Certo, a quel punto vedremmo quanti "fedelissimi", quelli paracadutati nei posti migliori ( o meno peggiori) delle liste, che tante polemiche hanno suscitato, saranno poi veramente tali.
A parte questo rilievo, Geremicca concorda con renzino sul fatto che per lui la strada è oltremodo in salita, con troppi elettori che lo hanno abbandonato dopo la fascinazione del 2014 (europee e 41%), rimproverandogli di essere troppo di sinistra su temi come l'immigrazione ( e per sua fortuna lo ius soli è stato rimandato), o troppo poco (sempre sulla questione migranti, ma anche sulle politiche del lavoro).
Episodi come quelli di Macerata, con la maggioranza degli italiani che non scende in piazza ma è convinta che gli sbarchi debbano cessare, senza se e senza ma, e una rumorosa minoranza che evoca derive razziste di stampo fascista, non aiutano affatto il putto toscano, che sta in mezzo al guado.
In realtà il problema è complesso, non di semplice soluzione.
Però è anche grave, e la gente tende a semplificare in bianco e nero : muro o accoglienza. Il grigio renziano ( come lettura del fenomeno, sulle soluzioni mi sembra che non ci siano strategie condivise) è realistico ma non fa voti.
In altra parte del giornale, si parla addirittura di un disastroso 20% per i democratici.
Confesso che, istintivamente, per la scarsa simpatia accumulata dal'ex sindaco di Firenze in questi 4 anni di segreteria PD, sarebbe un risultato che mi darebbe un brivido di soddisfazione.
Un gran gusto vedere in che modo l'assai poco modesto uomo politico si presenterebbe a spiegare il tracollo.
Poi però mi ricordo che il PD di stampo renziano è un male decisamente minore rispetto alla Ditta di bersaniana memoria, dove la sinistra aveva asfaltato i riformisti centristi della Margherita.
E quindi, alla fine, confido che Renzi la sua linea di galleggiamento, stabilita al 25% (Bersani nel 2013), la raggiunga.
Ultima cosa. La Lorenzin, inventrice di Civica Popolare, dove credo alberghi pure Cicchitto e altri peones della sfaldata truppa alfaniana, sembra proprio non farcela ad arrivare almeno all'1%.
E queste, almeno queste, so belle cose.
IL SENTIERO STRETTO DI MATTEO
FEDERICO GEREMICCA
Matteo Renzi non è contento. Giunti ormai a tre sole
settimane dal voto, infatti, la campagna elettorale non cambia verso, ogni
nuovo avvenimento (si pensi ai fatti di Macerata) pare moltiplicare le
difficoltà del Pd e soprattutto - lamenta il segretario - «tutto è usato contro
di me». Annotazione, quest’ultima, senz’altro vera: e che pare il contrappasso
di quel che accadeva appena tre anni e mezzo fa, quando il 40% ottenuto alle
elezioni europee certificò un consenso ed un pubblico sentire secondo il quale
qualunque cosa Renzi dicesse o facesse era quella più innovativa, sensata e
giusta da fare.
Quanta acqua sia passata sotto i ponti da quel maggio 2014 a oggi, è cosa nota.
Meno pubbliche e conosciute, forse, sono invece le ultimissime preoccupazioni
del leader dei democratici, che arrivano soprattutto dal continuo monitoraggio
di sondaggi e orientamenti dell’opinione pubblica. Le rilevazioni commissionate
dal Pd confermano - e in alcuni casi amplificano - le forti difficoltà
segnalate da tutti gli istituti di ricerca: con un paio di soglie di sicurezza
già infrante o vicine all’esser abbattute.
La prima è quella che riguarda il possibile risultato
proprio dei democratici, oggi stimati al di sotto di quanto ottenuto dal Pd di
Bersani nel 2013; la seconda è quell’uno per cento che le liste alleate devono
assolutamente superare affinché i voti ottenuti non finiscano letteralmente al
macero, non determinando l’elezione di alcun parlamentare: e quell’uno per
cento, al momento, verrebbe superato solo da «+Europa» di Emma Bonino.
Un quadro tutt’altro che rassicurante, dunque. E una
tendenza, per di più, che pare difficilissima da invertire anche in ragione di
quel «tutto è usato contro di me». A colpire Matteo Renzi, in particolare, è
stata l’evoluzione dei fatti di Macerata, cominciati con colpi di pistola
contro dei giovani di colore e contro la sede del Partito democratico e finiti
con un corteo organizzato da movimenti di sinistra e trasformatosi in una dura
manifestazione contro il governo ed il Pd: «Sparano contro le nostre sedi e
contro gli immigrati - ha annotato Renzi - e invece di prendersela con Salvini
accusano me».
Il fatto è che, nonostante il tentativo del segretario Pd di
abbassare i toni e denunciare speculazioni politiche, l’ex rottamatore si è
ritrovato nuovamente stretto (ma stavolta alla vigilia del voto) nella solita e
micidiale tenaglia che minaccia, da sempre, la sinistra di governo: da una
parte i settori più moderati e spaventati del Paese che chiedono «regole dure»
contro l’immigrazione clandestina; dall’altra il variegatissimo mondo della
sinistra che contesta, appunto, le «regole dure» varate quest’estate dal
ministro Minniti (che oggi, con evidenti rischi di contestazione, sarà a
Firenze per un’iniziativa elettorale proprio con Matteo Renzi).
La tendenza, insomma, è quella che è: e al di là
dell’annotazione che dall’avvio della Seconda Repubblica a oggi mai una
maggioranza di governo è stata poi riconfermata alle elezioni, invertirne il
segno appare quanto mai complicato. Non a caso, sono settimane che Matteo Renzi
riflette e pensa alle possibili mosse in un dopo-voto che dovesse vedere il Pd
seccamente battuto. Le liste elettorali - che tante tensioni hanno determinato
nel Pd - sono state per esempio costruite guardando appunto al 5 marzo e alla
necessità di avere gruppi parlamentari di «fedelissimi». E non è l’unica mossa
che pare esser stata compiuta guardando ad un futuro che si annuncia
burrascoso.
Non si è forse ragionato a sufficienza, per esempio, su una
scelta assai sorprendente effettuata da Matteo Renzi: quella di candidarsi al
Senato, dopo una lunghissima campagna referendaria impegnata a dimostrare - tra
l’altro - quanto quella Camera fosse inutile, costosa e perfino dannosa per il
buon funzionamento del sistema democratico. Cambiare idea non è, ovviamente, un
delitto: ma in questo caso la conversione del segretario Pd è stata tanto convinta
e fulminante da spingerlo a candidare al Senato quasi tutti i suoi cosiddetti
«fedelissimi» (Boschi e Lotti esclusi, crediamo, solo per motivi di età).
Singolare.
E a qualcuno, infatti - soprattutto nel Pd - questa scelta è
apparsa né neutra né casuale. Così, i sospetti si sprecano. Il gruppo di
«fedelissimi» voluto al Senato - si ipotizza - potrebbe trasformarsi nel
«nucleo fondativo» di un nuovo soggetto politico, nel caso Renzi dovesse
perdere la sua battaglia nel partito, se sconfitto alle elezioni. E qualcun
altro aggiunge: quel drappello di senatori è destinato a costituire una sorta
di «opposizione di blocco» capace di condizionare nascita e morte di qualunque
governo.
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