Riflessione di Luca Ricolfi su un tema ben noto : la spaccatura italiana in due realtà assolutamente opposte, Nord e Sud. La questione meridionale ha occupato libri e convegni per decenni, ma dagli anni 90 in poi anche quella settentrionale, con la crescita dei fan del federalismo ( i leghisti allora veramente accarezzavano l'idea della Secessione...), ha avuto dignità di una qualche attenzione.
Le recenti elezioni, con una divisione degli elettori che ripropone in qualche modo quelle della prima repubblica, dimostrano come nulla sia cambiato, anzi la frattura delle due Italie è vieppiù marcata.
Tutti i dati raccolti e proposti dalla Fondazione David Hume presieduta da Ricolfi, attingendo a dati proposti tanto dai ministeri competenti quanto da istituti stimati come il Cattaneo, il Leoni e la CGIA di Mestre, confermano che in tutte le materie economiche e sociali, il Sud è indietro : " un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese. "
E viceversa, per il cd. reddito di cittadinanza, che più giusto sarebbe chiamare, come all'estero, reddito minimo.
Nel Nord dove il lavoro è problema meno assillante, la gente è meno interessata, mentre a sud abbiamo avuto i desolanti episodi di file di persone che all'indomani delle elezioni già stavano fuori dai Caf per presentare domanda per l'accesso alla nuova forma di assistenza di Stato.
Se l'Italia è divisa così nettamente, osserva Ricolfi, forse è il caso di rassegnarsi ed immaginare due diverse politiche economiche sociali, da portare avanti almeno fino a quando la forbice non si sarà ridotta. Il maxi job sarebbe una delle strade da percorrere, con completa decontribuzione sociale per quelle imprese che a sud veramente creano nuovi posti di lavoro.
L'idea è semplice buon senso, ma ve li immaginate gli strilli dei benpensanti alla proposta di un Def che esplicitamente prevede due diverse politiche economiche, ufficializzando la diarchia esistente ? La retorica e la demagogia da noi sono assolutamente trasversali.
Buona Lettura
Due stati
20 marzo 2018 - di Luca Ricolfi
EconomiaPolitica
Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo
Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con
cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono
invece piuttosto mutevoli.
Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il
problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida
politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine
dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a
Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo
classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno
statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree
più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa
del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato
dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert
Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la
linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà
comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in
cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea
che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud
delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che
quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio,
o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.
Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o
meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro
non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la
questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e
Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.
Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente
dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di
descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di
vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente
omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune
di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo
Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo
relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione
(Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della
terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente
dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni
rosse.
Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta
vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte
italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale
pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione
fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si
parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel
giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.
Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è
quello che esce dalle urne?
A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato
essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato
nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si
distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana,
esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento
dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta
geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia
per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza
della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così
dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord
presidiato dal centro-destra e dal Pd.
Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie
che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere
più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà,
evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento
della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale
di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un
lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno
appare più avanti del resto del Paese.
È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre
150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello
di convergenza.
Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture
sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto
nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche
radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è
profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene
per tutto il paese.
Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?
Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?
Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il
Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David
Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso
sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi,
genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo
fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi,
che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo
senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire
l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un
grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi
(1 bambino su 9).
Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente,
meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe
disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il
rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel
commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo
del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione
dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che,
se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla
riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la
pressione fiscale in generale.
Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa
20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce
l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione
dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna
così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si
sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà
relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo
dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto
di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.
Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana
e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si
concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo.
Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni,
e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.
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