Bersani nel 2013 non aveva vinto, nonostante il porcellum gli avesse regalato, col solo 30% dei voti alla coalizione (il Pd si era fermato al 25%, che oggi sarebbe stato vissuto come un trionfo,,,) il dominio di Montecitorio e l'ipoteca sul Senato.
Oggi i grillini, pur primo partito col 32% dei voti, sono lontanissimi dalla maggioranza solitaria in entrambe le camere.
La stessa cosa vale per il centro destra, dove la crescita della Lega è stata fatta a spese dell'alleato, Forza Italia, e quindi la coalizione, col 37%, si trova in una situazione analoga ai 5 stelle : primi, se uniti, ma lontani dalla maggioranza in Parlamento.
Questo fa dire a Luca Ricolfi che, in realtà, nessuno ha veramente vinto il 4 marzo .
In compenso, se non ci sono veri vincitori, uno sconfitto senza se e senza ma esiste, ed è il PD.
Anzi, precisa correttamente Ricolfi, la sinistra tutta.
Parliamo però di quella storica, diremmo tradizionale. E' quella che è in crisi, perché un certo elettorato di sinistra, centralista ed assistenzialista, con l'idea che lo Stato debba provvedere ai suoi "figli", resiste spostandosi nelle file magari un po' rozze ma viste come "pure", non contaminate dal potere, dei pentastellati.
In un altro intervento, Luca Ricolfi identifica il successo nettissimo dei 5 Stelle al Sud con la resistenza democristiana del 1992, anno delle ultime elezioni della prima repubblica dove appunto la DC resistette molto bene grazie proprio alle roccaforti sudiste.
Ecco i 5 Stelle sono la nuova DC, che raccoglieva elettori un po' ovunque. Certo ci sono anche le differenze : la DC aveva il suo bacino principale nell'elettorato moderato, mentre i 5 Stelle nei sinistrosi delusi.
Ecco, mi piacerebbe che gli elettori di centro destra, che costituiscono una minoranza , però ancora folta, della congregazione ortottera, si rendano conto di questa realtà : i loro voti vanno a rafforzare uno schieramento politico che sui temi di libertà individuali ed economiche non la vede come loro, che continuano a sognare uno Stato meno presente e allo stesso tempo più efficiente (magari anche grazie alla minora ingerenza in tutto l'orbe terracqueo del paese).
Dicono che la sinistra e la destra sono concetti superati, e sicuramente è vero che essi non riflettono più le forze politiche principali del secolo scorso (liberali e socialisti), ormai in forte e probabilmente irreversibile crisi.
Però c'è ancora una differenza nel modo di concepire la società, sulla prevalenza dei principi di libertà o uguaglianza (prevalenza, badate, non esclusione).
Moderati, conservatori, liberali delusi, sappiatelo : quando votare 5 Stelle, votate a sinistra.
Liberi di farlo, ma consapevoli.
Due Sinistre
25 marzo 2018 - di Luca Ricolfi
Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono
vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze
sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere
appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi,
sia dal 50% dei seggi parlamentari.
Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta.
Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); malela
Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a
raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che
sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.
Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta.
Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male
Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale,
a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra.
Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i
Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo
non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa:
una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre
opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di
Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o
neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di
sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una
certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato
progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura,
magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del
Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato
progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e
fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella
anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.
Questa doppia rappresentanza, riformista e populista,
dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi
conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il
primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in
particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità
dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice
principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi
anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno
semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di
(almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia,
l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.
Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non
perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre
più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo
camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente
il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria
sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come
i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in
termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare
il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.
Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico
vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che
i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è
sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente
spiazzato.
Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato
possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle
Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?
La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che
Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a
portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è
stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di
errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha
condotto la campagna referendaria.
Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il
solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte,
sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché
la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della
mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e
lontane radici.
La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito
della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo
che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina
di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti
sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati,
affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai
problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità,
immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche,
molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva
già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di
“grandi battaglie di civiltà”.
La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece,
con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non
essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di
classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti,
non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto
espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge
Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop
all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori
comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una
chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle
alleanze e alle ascendenze ideologiche.
Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei
programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari.
Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta
la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un
racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato
dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.
Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con
la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di
fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di
un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti
dell’arte politica.
E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per
offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito
della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé.
Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è
aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole
l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta,
indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora
intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi
riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti
popolari.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018
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